martedì 25 giugno 2013

Le minoranze & alloglossie in Italia

Le alloglossie in Italia. 

Tra le alloglossie presenti in Italia (i cui parlanti ammontano a meno del 5% della popolazione complessiva), formano altrettante minoranze nazionali in continuità territoriale con le madrepatrie di riferimento le popolazioni che praticano (accanto ai locali dialetti germanici, slavi e francoprovenzali) un uso colto e co-ufficiale del tedesco (provincia autonoma dell’Alto Adige / Südtirol), dello sloveno (Trieste, Gorizia e aree rurali circostanti; ➔ slovena, comunità) e del francese (regione autonoma Vallée d’Aoste / Valle d’Aosta). Sono poi minoranze linguistiche che praticano varietà alloglotte di tipo germanico anche i membri di alcune comunità sparse lungo la catena alpina in Valle d’Aosta e in Piemonte (gruppi Walser; ➔ walser, comunità), in Trentino e in Veneto (gruppi Cimbri e Mòcheni e isola linguistica di Sappada) e in Friuli (comunità carinziane di Sauris, Timau e del Tarvisiano), storicamente prive del ‘tetto’ linguistico del tedesco standard. Dialetti sloveni distinti dalla lingua letteraria e i cui parlanti sono tradizionalmente privi di un legame culturale e identitario con la Slovenia si parlano anche lungo la linea di confine tra questo paese e la provincia di Udine, nelle valli del Torre e del Natisone e (in compresenza con dialetti friulani e germanici) nella conca di Tarvisio. Dialetti francoprovenzali slegati dal contesto di bilinguismo ufficiale italo-francese vigente in Valle d’Aosta sono parlati anche nella sezione nord-occidentale della provincia di Torino. Condizioni di alloglossia legate a una continuità territoriale transfrontaliera riguardano poi i dialetti provenzali (o occitani) parlati nel settore alpino del Piemonte tra la Val di Susa e la Val Vermenagna (➔ provenzale, comunità). 
Nell’Italia meridionale e insulare, le parlate alloglotte appaiono maggiormente disperse, come risultato dell’immigrazione in epoca medievale e moderna di popolazioni provenienti dall’esterno, con la probabile eccezione dei dialetti neogreci del Salento e dell’Aspromonte, per i quali resta aperto il problema della continuità con la lingua che fu parlata nella Magna Grecia (➔ greca, comunità). Fra il Quattrocento e il Settecento si formarono invece le comunità di dialetto albanese diffuse tra l’Abruzzo meridionale, il Molise, la Campania, la Puglia, la Basilicata, la Calabria e la Sicilia (➔ albanese, comunità). Nella stessa epoca si verificarono gli insediamenti slavi (croati) del Molise (➔ serbocroata, comunità); al Trecento risale invece il ripopolamento di Alghero in Sardegna da parte di genti provenienti dalla Catalogna. Gruppi di dialetto provenzale (e originariamente di confessione valdese) si stanziarono a loro volta in Calabria nel XV secolo (Guardia Piemontese), altri di dialetto francoprovenzale si stabilirono in epoca imprecisata nella Puglia settentrionale (Faeto e Celle San Vito). Quest’ultimo popolamento non va probabilmente disgiunto, per epoca e circostanze, dall’immigrazione in Sicilia, in Basilicata e nel Cilento di popolazioni parlanti dialetti italiani settentrionali di area ligure e piemontese meridionale (galloitalici; ➔ gallo-italica, comunità), che costituiscono un altro caso di parlata alloglotta, così definibile in rapporto al continuum dialettale in cui si trovano inserite. A maggior ragione alloglotta, perché integrata in un contesto a sua volta alloglotto rispetto al resto d’Italia, è l’isola linguistica tabarchina in Sardegna (➔ tabarchina, comunità). Alloglotti con tradizioni storiche antiche (risalenti almeno al Trecento) sono inoltre i gruppi zingari presenti in Italia, dispersi in collettività nomadi appartenenti ai ceppi Sinti (prevalenti nell’Italia settentrionale) e Rom (accresciuti di recente dall’immigrazione dall’Est europeo; ➔ zingare, comunità). 
La nozione di alloglossia viene comunemente estesa in Italia anche al sistema dei dialetti sardi (➔ sardi, dialetti), che si considerano come un gruppo romanzo autonomo rispetto a quello dei dialetti italiani; e ai dialetti friulani e ladini, spesso integrati in una superiore unità ‘retoromanza’, e la cui peculiarità è legata al persistere di condizioni di maggiore arcaicità rispetto alle contermini parlate italiane settentrionali. Per una parte almeno dell’area di dialetto ladino (➔ ladina, comunità) va del resto sottolineato che il mantenimento delle parlate locali si verificò in un ambito culturale prevalentemente germanico, e che lo sviluppo di una specifica identità ladina ha seguito fino a tempi recenti le vicende legate al contesto territoriale tirolese, fatto che ha accresciuto il senso collettivo di specificità della popolazione interessata. 
Alle situazioni che compongono la mappa delle alloglossie storiche presenti in Italia e comunemente note come minoranze linguistiche (Toso 2008), si dovrebbero aggiungere infine alcuni casi specifici: in primo luogo gli usi linguistici di comunità religiose disperse, come quella ebraica (➔ giudeo-italiano) e quella armena, che fanno un uso liturgico di lingue diverse dall’italiano; poi i gruppi di popolazione che parlano dialetti italiani all’interno di aree territoriali in cui è diffusa una lingua minoritaria: dialetti veneti in Friuli, dialetti corsi (sassarese, gallurese e maddalenino) nella Sardegna settentrionale. 
Carattere di storicità andrebbe ormai riconosciuto, inoltre, a gruppi di popolazione dialettofona trasferiti compattamente in aree diverse da quella d’origine, come i Veneti della Toscana, dell’Agro Pontino e della Sardegna chiamati dal governo fascista (➔ fascismo, lingua del; ➔ politica linguistica) a colonizzare aree di bonifica negli anni Trenta (Telmon 1994). 

Criteri di classificazione. Una classificazione genealogica degli idiomi coinvolti nella categoria delle alloglossie consente di apprezzare la ricchezza di tale patrimonio linguistico storico in Italia, certamente tra i più variegati dell’Europa occidentale: esso comprende infatti idiomi di origine semitica (l’ebraico come lingua liturgica), indoeuropea a sé stante (greco, albanese e armeno come lingua liturgica), indoiranica (dialetti zingari), germanica (tedesco standard e dialetti tirolesi in Alto Adige, gruppi minori dell’area alpina), slava (sloveno standard e dialetti sloveni tra Friuli e Venezia Giulia, croato del Molise), neolatina galloromanza (francese, dialetti francoprovenzali e provenzali), iberoromanza (catalano), italoromanza (galloitalico del Meridione e tabarchino), neolatina a sé stante (dialetti sardi, dialetti friulani e ladini). 
Il panorama delle alloglossie storiche in Italia appare assai vario e articolato anche per distribuzione geografica (lungo i confini settentrionali e nel contesto meridionale e insulare) e per peso demografico: sono minoranze numericamente consistenti quelle regionali sarda (oltre un milione di parlanti) e friulana (almeno 400.000 parlanti), quella sudtirolese (oltre 250.000), quella zingara (circa 120.000) e in minor misura (ma pur sempre con più di 50.000 parlanti) quella valdostana implicata nell’uso ufficiale del francese (che però non è se non eccezionalmente lingua materna dei parlanti), quella slovenofona, quella albanofona e quella galloitalica di Sicilia. In rapporto ai parametri UNESCO di vitalità e di tenuta nell’uso parlato, Berruto (2009: 341) definisce poi «in regressione» il sardo, i dialetti zingari, lo sloveno in provincia di Udine, il francoprovenzale in Valle d’Aosta, l’albanese, il provenzale e il catalano (a cui va aggiunto il galloitalico di Sicilia); in «forte regressione» i dialetti germanici minori, il francoprovenzale della Puglia, il greco e il croato molisano; in «lieve regressione» il friulano e il ladino (a cui va aggiunto il tabarchino, caratterizzato da una notevole tenuta); sono «non minacciate», come si è visto, le lingue delle minoranze nazionali. 

Minoranze italofone all’estero. Quanto alla presenza dell’italiano come lingua minoritaria storica all’estero, essa si limita di fatto alla Slovenia e alla Croazia, dove si riconoscono e tutelano come minoranze nazionali gruppi autoctoni che praticano tradizionalmente dialetti veneti e istrioti, e alla Bosnia-Erzegovina e Romania, dove si riconosce la presenza di una minoranza linguistica italofona risalente alla fine dell’Ottocento. Questo fatto è indicativo tra l’altro dei diversi parametri di storicità che si adottano a seconda delle tradizioni culturali nei diversi paesi, tali da costituire un serio ostacolo nella definizione di una politica comune europea in tema di tutela delle minoranze linguistiche. 
In Francia, lo status di lingue minoritarie si riconosce invece a dialetti italoromanzi come il còrso e il ligure (nel Nizzardo e a Bonifacio in Corsica), ma non all’italiano standard, che neppure si propone come lingua tetto ideale di tali realtà; nel Principato di Monaco il dialetto monegasco è lingua nazionale accanto al francese (che è la lingua ufficiale), mentre l’italiano standard gode (come del resto a Malta) di una notevole diffusione, pur essendo privo di qualsiasi status. 
A San Marino e in Svizzera non si può parlare formalmente di situazioni di minorità, in quanto l’italiano è a tutti gli effetti unica lingua ufficiale della piccola Repubblica (dove è diffuso un dialetto romagnolo) e del Canton Ticino e delle valli italofone del Canton Grigioni (aree di dialetto lombardo) (➔ Svizzera, italiano di); nella Confederazione Elvetica l’italiano è inoltre una delle quattro lingue ufficiali della nazione, anche se, assieme al retoromancio, gode di uno statuto particolare che ne riconosce il carattere minoritario a livello confederale. 
La presenza dell’italiano e dei dialetti in paesi caratterizzati da una forte immigrazione dall’Italia conferma l’ambiguità terminologica del concetto di minoranza linguistica, in base al quale, in accezione ampia, si dovrebbe parlare di minoranze italiane, anche consistenti, almeno in paesi europei come la Germania, la Francia, la Svizzera o il Belgio, e in paesi extraeuropei come gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina, l’Uruguay, il Venezuela, il Brasile e l’Australia, paese quest’ultimo dove le lingue immigrate (➔ emigrazione, italiano dell’), tra cui l’italiano, godono comunque di alcune forme di riconoscimento. 

La tutela delle minoranze linguistiche in Italia. Prevista dall’art. 6 della Costituzione, la tutela delle minoranze linguistiche in Italia ha riguardato fino a tempi recenti le sole minoranze nazionali (➔ legislazione linguistica). L’uso co-ufficiale del tedesco in Alto Adige e del francese in Valle d’Aosta fu previsto da accordi internazionali al termine della seconda guerra mondiale, mentre quello dello sloveno di Trieste e Gorizia (ma non dei dialetti sloveni in provincia di Udine) fu regolato a partire dagli accordi di Osimo con la Iugoslavia (1975); inoltre, i provvedimenti relativi al bilinguismo in provincia di Bolzano e i loro controversi meccanismi applicativi hanno riguardato anche la minoranza ladina del Sudtirolo (ma non quella delle province di Trento e di Belluno). Alla fine del 1999, dopo un iter complesso e una discussione che coinvolse l’opinione pubblica e gli ambienti politici e intellettuali (sollecitata anche dall’approvazione da parte del Consiglio d’Europa di una raccomandazione nota come Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, 1992), si approdò a un provvedimento legislativo in materia di «tutela delle minoranze linguistiche storiche». In realtà la legge n. 482/1999, in contrasto col dettato costituzionale (che all’art. 6 sancisce la tutela «con apposite leggi» delle minoranze linguistiche, senza introdurre distinzioni di sorta, e all’art. 3, comma 2, sancisce l’uguaglianza «sostanziale» e il «compito» della Repubblica di «rimuovere gli ostacoli» che impediscano la piena realizzazione dell’eguaglianza ‘formale’ di tutti «senza distinzione […] di lingua»), parte dall’interpretazione del concetto di minoranza linguistica storica come alloglossia (escludendo peraltro alcuni casi appartenenti a questa categoria), e dal presupposto che i ➔ diritti linguistici riconosciuti alle minoranze nazionali vadano estesi, per preservarne il patrimonio culturale, alle minoranze linguistiche storiche riconosciute (Orioles 2003). 
La confusione tra i concetti di diritto linguistico e di patrimonio linguistico ha introdotto così una discriminazione all’interno di quest’ultima categoria, riconoscendo come suscettibili di tutela solo quelle componenti di essa (un certo numero di alloglossie) alle quali è stato riconosciuto il carattere di «minoranze linguistiche storiche». Non solo l’elencazione imprecisa e parziale, ma anche le modalità di delimitazione degli ambiti territoriali interessati (lasciata di fatto alle amministrazioni locali) contribuirono a un sostanziale fallimento del provvedimento legislativo. Si sono così moltiplicate le polemiche nell’ambito dei contesti linguistici rimasti fuori dal provvedimento (censurato anche dalle istituzioni europee per l’esclusione della lingua zingara; Consani & Desideri 2007), le interpretazioni disinvolte dei criteri di ‘zonizzazione’ (l’accesso ai finanziamenti previsti ha indotto, ad es., molti comuni di tradizioni dialettali piemontesi, liguri e venete a dichiarare inesistenti appartenenze minoritarie) e le applicazioni volte ad affermare (eludendo le tradizioni di plurilinguismo e pluriglossia tradizionalmente presenti sul territorio) la sostanziale equiparazione delle alloglossie alla lingua ufficiale e alle lingue co-ufficiali presenti in Italia, con l’elaborazione di modelli standardizzati privi per lo più di corrispondenza con le esigenze comunicative e identitarie delle popolazioni interessate. 
Il vero problema della tutela dei patrimoni linguistici minoritari resta, in realtà, la difficoltà di rafforzare la consapevolezza della funzionalità di una consuetudine plurilingue presso comunità di parlanti ormai da tempo orientate verso un’adesione incondizionata a codici comunicativi di maggiore prestigio. È evidente che, al di là di iniziative di ricerca e di studio da condursi col supporto di idonei strumenti scientifici, le forme della tutela (a parte il caso delle minoranze nazionali) non dovranno tanto essere rivolte alla promozione di diritti linguistici, neppure percepiti come tali dagli interessati, né a una gestione burocratica e verticistica del bene culturale lingua, quanto a un’educazione al rispetto e alla conoscenza dei patrimoni linguistici minoritari (alloglotti e non) come componenti essenziali, nel loro insieme, del patrimonio culturale del paese.
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Minoranza & alloglossia: definizione

Per minoranze linguistiche si intendono gruppi di popolazione che parlano una lingua materna diversa da quella di una maggioranza: quest’ultima si identifica normalmente coi parlanti che hanno come lingua materna la lingua ufficiale dello Stato di cui sono cittadini. In accezione stretta, sono dunque minoranze anche quanti parlano un dialetto (intendendo con questo termine un idioma geneticamente autonomo, utilizzato in condizione di subordine rispetto alla lingua di maggior prestigio) o una lingua di recente importazione. Sotto questo punto di vista si può così definire minoranza linguistica, ad es., anche l’insieme dei parlanti abruzzese (o un singolo dialetto abruzzese), o degli immigrati che parlano il romeno (Telmon 1992). Diversamente da quanto avviene in altri paesi occidentali, però, il concetto di minoranza linguistica ha assunto in Italia un’accezione più ristretta (Toso 2006), sovrapponendosi a quello di alloglossia, che identifica varietà minoritarie aventi un’origine nettamente distinta rispetto alla lingua ufficiale e al diasistema dei dialetti italiani.
Il concetto di alloglossia viene spesso associato al carattere presuntamente ‘allogeno’ delle popolazioni: già ➔ Graziadio Isaia Ascoli (1861) parlava di «colonie straniere in Italia» per le comunità alloglotte da lui individuate, in base al presupposto di una corrispondenza tra confini geografici ed etnico-linguistici. Alla confusione tra i concetti di minoranza linguistica e di alloglossia si aggiunge spesso il ricorso a parametri di ‘storicità’ (presenza antica della minoranza alloglotta all’interno dei confini di stato) e ‘territorialità’ (radicamento della minoranza stessa su una determinata porzione di territorio): in tal modo però si escludono dal concetto di minoranza linguistica non solo i dialettofoni italiani, ma anche chi parla lingue alloglotte di importazione recente (lingue ‘immigrate’; ➔ acquisizione dell’italiano come L2) e quelle (presenti da secoli in Italia) di popolazioni nomadi o disperse (➔ zingare, comunità).
Storicamente, la confusione tra minoranza linguistica e alloglossia nasce in Italia per due motivi. Da un lato, la difficoltà di tenere distinto l’insieme di ‘minoranze’ rappresentato dagli utenti della dialettofonia tradizionale da una ‘maggioranza’ che di fatto, soprattutto nella situazione sociolinguistica attuale, vi corrisponde. Dall’altro, l’ulteriore confusione tra i concetti di minoranza linguistica (o, con termine di discutibile valenza scientifica, etnico-linguistica) e minoranza nazionale: quest’ultimo indica in particolare gruppi di popolazione presso i quali la diffusione di una lingua si associa all’affermazione di un differente senso di appartenenza rispetto alla maggioranza, col prevalere di caratteri ‘nazionali’ rivendicati come altrettanti segnali di adesione a un’identità collettiva diversa.
La distinzione tra minoranza nazionale e minoranza linguistica si può verificare, ad es., nel caso della popolazione germanofona dell’Alto Adige (➔ tedesca, comunità), che si riconosce per una serie di motivi (non soltanto linguistici) in una identità nazionale austriaca; mentre si può parlare di una minoranza nazionale catalana in Spagna, ma non in Italia, dove le tradizioni linguistiche della città di Alghero (➔ catalana, comunità) non determinano un diverso sentimento di appartenenza della popolazione catalanofona. Del resto, dal punto di vista linguistico, nel caso delle minoranze nazionali ciò che determina un’alterità è non tanto il persistere degli usi tradizionali, quanto l’impiego storico, accanto all’italiano, di una lingua ufficiale e di cultura diversa da esso: in Valle d’Aosta (➔ francese, comunità), così, è l’uso co-ufficiale del francese a fornire le prerogative di minoranza nazionale a una popolazione che nella prassi parlata adopera tale lingua in percentuale irrisoria, usando tradizionalmente, negli usi quotidiani, varietà dialettali di tipo francoprovenzale (e, oggi, prevalentemente l’italiano; ➔ francoprovenzale, comunità).
La suddivisione tra minoranze nazionali e minoranze linguistiche porta a considerare l’importante distinzione (Berruto 2009) tra lingue minoritarie e lingue minacciate. Infatti, se è vero che la condizione di minorità implica in genere una situazione di crisi degli usi tradizionali, fino all’obsolescenza e alla morte della lingua, è altrettanto evidente che le lingue delle minoranze nazionali, soggette a tutela in base ad accordi internazionali e praticate in contesti di co-ufficialità nella varietà standard che gode di prestigio e di ufficialità nei paesi di riferimento, appaiono meno esposte degli idiomi delle minoranze linguistiche a un’erosione delle proprie prerogative: solo il tedesco in Alto Adige, il francese in Valle d’Aosta e lo sloveno a Gorizia e Trieste risultano non a caso, secondo Berruto (2009: 341), lingue minoritarie non minacciate in Italia.
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lunedì 24 giugno 2013

Lingue celtiche & Gaelico

Le lingue celtiche.
Le lingue celtiche sono idiomi che derivano da celtico comune o proto-celtico, un tempo parlate (intorno al I millennio A.C.) in gran parte d’Europa dal Golfo di Guascogna al Mar del Nord, nelle zone comprese tra il Reno e il Danubio fino al Mar Nero e Galizia. Queste lingue sono oggi parlate in poche zone della Gran Bretagna, dell’Irlanda, nell’Isola di Man e nella regione Bretagna in Francia.
Il proto-celtico a sua volta è diviso in quattro gruppi linguistici differenti:
• Un primo gruppo distingue il gallico, il lepontico, il norico e il galato. Queste lingue erano molto diffuse dal Belgio al Nord Italia e dalla Turchia alla Francia.
• Un secondo gruppo comprende il celtiberico, un tempo parlato nella penisola iberica, dal Portogallo centro-meridionale fino ad alcune regioni della Spagna come la Galizia, le Asturie e in Cantabria.
• Il terzo gruppo è rappresentato dal goidelico che racchiude l’irlandese, il mannese e il gaelico scozzese, parlate tutt’oggi.
• L’ultimo gruppo, infine è rappresentato dal brittonico che include il bretone, il gallese e il cornico (parlate tutt’ora), e il cumbrico.
Un altro schema di classificazione vede le lingue celtiche raggruppate in due gruppi distinti: le lingue celtiche insulari comprendenti il goidelico e il brittonico e le lingue celtiche continentali che comprendono il celtiberico e il gallico. Lo scopo di questa distinzione è dovuto al fatto che le differenze fra le lingue goideliche e quelle brittoniche hanno avuto origine dopo la separazione fra lingue continentali e insulari. Inoltre, le lingue celtiche insulari sono parlate ancor’oggi in diverse regioni, mentre quelle continentali sono del tutto estinte.
 Alcune particolarità delle lingue celtiche sono:
 • ordine dei costituenti della frase (VSO; e quindi Verbo, Soggetto, Complemento Oggetto);
• scomparsa degli infiniti, che vengono sostituiti di norma da un nome verbale;
 • mancanza del verbo “avere”, normalmente espresso per mezzo della costruzione “essere”+ preposizione .



La storia della lingua irlandese: le lingue goideliche e il gaelico irlandese.

Le lingue goideliche. Sono un ramo delle lingue celtiche insulari portate tra il III e il VI secolo dai celti d’Irlanda (noti dai romani come Scoti) comprendenti anche il gaelico scozzese e il mannese. Diffuse in Galizia, Portogallo, alcune zone della Svizzera e Austria e nell’area di Marsiglia e della Senna, l’unica forma scritta del Goidelico è l’Ogham, utilizzato dal IV al XV secolo e la sua forma scritta più antica è l’irlandese primitivo , che mostra caratteristiche morfologiche e flessive simili al gallese, latino, greco classico e sanscrito.

Il gaelico irlandese – cenni storici. Il gaelico irlandese o semplicemente irlandese (Gaeilge), appartiene al gruppo delle lingue goideliche o gaeliche ed è la lingua nazionale della Repubblica d’Irlanda, nonché la “principale lingua ufficiale” dell’Irlanda secondo l’articolo 8 della costituzione irlandese. Inoltre, dal 1° gennaio 2007 l’irlandese è anche una delle lingue ufficiali dell’Unione europea.
 Tracce della lingua irlandese si hanno sin da prima del IV secolo: si pensi alle iscrizioni in alfabeto ogamico ma è chiaro comunque che in quel periodo in Irlanda si parlasse già irlandese, noto come irlandese arcaico, che a sua volta sembra avere soppiantanto le lingue parlate precedentemente in Irlanda (di cui non si ha alcuna attestazione diretta ma che comunque hanno lasciato segni nel sostrato linguistico dell’irlandese), restando dunque l’unica lingua parlata nel territorio irlandese sino all’arrivo del Cristianesimo tra il IV e il V secolo, nel periodo in cui la Gran Bretagna era invasa dai Romani. A tale periodo risalgono alcuni prestiti latini dell’irlandese, altri termini latini sono giunti in Irlanda tra il 600 e il 900 d.C., con il ritorno dei peregrini, monaci irlandesi e scozzesi in missione sul continente per l’esercizio di attività monastiche. Questo portò alla formazione dell’irlandese antico, molto standardizzato e privo di frazionamento dialettale.
 Con l’arrivo dei vichinghi verso la fine dell’VIII secolo, il territorio irlandese entrerà in contatto con altre lingue ma, nonostante iniziali razzie e saccheggi e l’insediamento degli scandinavi nelle città costiere come commercianti, i segni lasciati da queste popolazioni sono pochi: i prestiti scandinavi difatti, risultano essere circa sessanta. Ma l’entrata dei vichinghi insieme ai disordini sociali e politici di questo periodo hanno favorito il passaggio dall’irlandese antico all’irlandese medio (900-1200): quest’ultimo infatti, si discosta molto dal precedente per quanto riguarda la grammatica, dalla semplificazione delle forme verbali all’ortografia.
Dopo il 1169 l’irlandese subì l’influsso normanno, dando vita all’irlandese classico. Il periodo normanno, tuttavia, godette di stabilità linguistica e ricchezza letteraria, nonostante i nobili normanni cercarono in tutti i modi di spartirsi l’isola con alcuni signori locali e comunque non riuscirono mai a conquistarla totalmente né ad assimilarla culturalmente, per via di alcuni territori dei margini occidentali e settentrionali soggetti si a tributi, ma molto indipendenti sotto l’aspetto politico-culturale.
L’inglese nel frattempo si era affermato solo nella zona di Dublino (detta “The Pale”) e di Wexford. Neanche con gli statuti di Kilkenny nel 1366 (che vietavano ai coloni inglesi di usare l’irlandese) la lingua inglese potè espandersi.
Durante il XVI e il XVII alcuni agricoltori irlandesi e scozzesi si stanziarono in alcune zone dell’Irlanda, ma ciò comunque non cambiò di molto la situazione precedente: il popolo parlava per lo più l’irlandese, i nobili sia l’irlandese che l’inglese, ma a poco a poco cominciò a calare il numero dei parlanti irlandese e l’espulsione degli ultimi nobili gaelici nel 1607 (Fight of The Earls) fece sì che il gaelico non ebbe più legami con le classi elevate. Da qui la nascita del neoirlandese o irlandese moderno.
Ma ciò che più di tutti contribuì ad arretrare la lingua irlandese fu l’industrializzazione cominciata alla fine del XVIII secolo, con l’avvento inoltre di una grande carestia che costrinse a chi voleva sopravvivere ad emigrare nelle città e ad imparare l’inglese. Così la lingua irlandese cominciò ad essere vista come la lingua dei poveri, dei vagabondi, dei contadini e quest’idea poco alla volta si diffuse anche al di fuori delle città. Da questo momento in poi sarà la lingua inglese a soppiantare l'irlandese.
Ma verso la fine del XIX secolo e in particolar modo dopo l’indipendenza d’Irlanda nel 1922 si sentì il bisogno di far rivivere l’irlandese, considerando anche che il censimento del 1891 fece emergere il basso numero dei parlanti irlandese: circa 680000 erano parlanti irlandese, ma solo il 3% circa dei bambini di età compresa tra i tre e i quattro anni parlava l’irlandese. Ciò fu possibile anche grazie al miglioramento dello status sociale dell’irlandese: il numero dei parlanti madrelingua è crollato di molto, ma il numero degli irlandesi che padroneggiano la lingua con lingua seconda a livello attivo e passivo è notevolmente aumentato: soprattutto nei grandi centri molti anglofoni ormai conoscono abbastanza bene e utilizzano l’irlandese. Influssi negativi della situazione linguistica tra il XX e il XXI sono dovuti alla crescente mobilità delle persone, ai massmedia e al contatto ravvicinato fra anglofoni e parlanti irlandese.
Con il censimento del 2002 è emerso che circa il 43% della popolazione afferma di conoscere l’irlandese e circa 70000 di essi sono madrelingua e tra essi non tutti utilizzano l’irlandese in ogni situazione .
Il gaelico irlandese oggi. L’irlandese è oggi presente un po’ dovunque in Irlanda: ad esempio su tutta l’isola, le indicazioni stradali e i nomi delle vie sono scritte sia in inglese che in irlandese. È però difficile sentir parlare in Irlanda il gaelico se non in alcune zone particolari o nei maggiori centri come Dublino e Galway e inoltre esso è parlato solo da persone di una certa età e di estrazione colta e si tratta di irlandese standard. È possibile però che in alcune facoltà l’irlandese sia materia d’insegnamento (soprattutto nelle materie umanistiche e di lingua e cultura celtica). Lo studio dell’irlandese però, è obbligatorio nelle scuole ma le lezioni al di fuori dell’irlandese come materia scolastica avvengono perlopiù in inglese. Sono soprattutto i giovani che non vedono di buon occhio l’insegnamento dell’irlandese nelle scuole perché ritengono che sia antiquato e inutile dal momento che questa lingua non viene utilizzata nel commercio internazionale. Nel ceto medio urbano colto il gaelico irlandese è ristretto per la maggior parte al contesto familiare e/o passivo. Per strada e nelle conversazioni informali è difficile poter udire persone che parlino irlandese ma nelle conversazioni fra studenti universitari, ricercatori e artisti si coglie sempre l’occasione per poter scambiare qualche parola in irlandese, del resto a Dublino non mancano alcuni club e caffè dove si parla solo il gaelico irlandese. La letteratura irlandese è piuttosto vivace: spesso si organizzano festival, inoltre nelle edicole e nelle librerie si possono acquistare libri in irlandese. Molti negozi frequentati dai turisti invece vendono grandi quantità di adesivi, souvenir e gadget vari con parole o espressioni in irlandese. Esistono inoltre diversi emittenti radio e televisive e quotidiani in lingua irlandese e, anche laddove lo scambio di informazioni avviene in inglese, non di rado si incontrano espressioni irlandesi: un esempio ne sono alcune istituzioni statali e pubbliche che hanno denominazioni esclusivamente in irlandese e spesso quest’ultime vengono utilizzate accanto alla forma inglese: (sono numerose ma ne indico solo alcune come esempio):
• Il nome del paese Eire (in quasi tutte le cartine geografiche lo si incontra insieme ad “Ireland”),
• Telecom Eireann, in inglese Telecom (Telecom d’Irlanda).
• Il parlamento (An tOireachtas), il senato (Seanad Eireann) e i nomi di tutti i ministeri (Roinn+ gli ambiti al genitivo), inoltre An Taoiseach è il nome che indica il Primo Ministro e gardai (Police) ovvero la polizia. Inoltre, i testi di tutte le leggi vanno emanati anche in lingua irlandese, per evitare i casi di ambiguità, anche se nella prassi ciò non viene applicato: nelle sentenze viene consultato il testo in inglese e la redazione in irlandese viene pubblicata in un secondo momento.
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