martedì 25 giugno 2013

Le minoranze & alloglossie in Italia

Le alloglossie in Italia. 

Tra le alloglossie presenti in Italia (i cui parlanti ammontano a meno del 5% della popolazione complessiva), formano altrettante minoranze nazionali in continuità territoriale con le madrepatrie di riferimento le popolazioni che praticano (accanto ai locali dialetti germanici, slavi e francoprovenzali) un uso colto e co-ufficiale del tedesco (provincia autonoma dell’Alto Adige / Südtirol), dello sloveno (Trieste, Gorizia e aree rurali circostanti; ➔ slovena, comunità) e del francese (regione autonoma Vallée d’Aoste / Valle d’Aosta). Sono poi minoranze linguistiche che praticano varietà alloglotte di tipo germanico anche i membri di alcune comunità sparse lungo la catena alpina in Valle d’Aosta e in Piemonte (gruppi Walser; ➔ walser, comunità), in Trentino e in Veneto (gruppi Cimbri e Mòcheni e isola linguistica di Sappada) e in Friuli (comunità carinziane di Sauris, Timau e del Tarvisiano), storicamente prive del ‘tetto’ linguistico del tedesco standard. Dialetti sloveni distinti dalla lingua letteraria e i cui parlanti sono tradizionalmente privi di un legame culturale e identitario con la Slovenia si parlano anche lungo la linea di confine tra questo paese e la provincia di Udine, nelle valli del Torre e del Natisone e (in compresenza con dialetti friulani e germanici) nella conca di Tarvisio. Dialetti francoprovenzali slegati dal contesto di bilinguismo ufficiale italo-francese vigente in Valle d’Aosta sono parlati anche nella sezione nord-occidentale della provincia di Torino. Condizioni di alloglossia legate a una continuità territoriale transfrontaliera riguardano poi i dialetti provenzali (o occitani) parlati nel settore alpino del Piemonte tra la Val di Susa e la Val Vermenagna (➔ provenzale, comunità). 
Nell’Italia meridionale e insulare, le parlate alloglotte appaiono maggiormente disperse, come risultato dell’immigrazione in epoca medievale e moderna di popolazioni provenienti dall’esterno, con la probabile eccezione dei dialetti neogreci del Salento e dell’Aspromonte, per i quali resta aperto il problema della continuità con la lingua che fu parlata nella Magna Grecia (➔ greca, comunità). Fra il Quattrocento e il Settecento si formarono invece le comunità di dialetto albanese diffuse tra l’Abruzzo meridionale, il Molise, la Campania, la Puglia, la Basilicata, la Calabria e la Sicilia (➔ albanese, comunità). Nella stessa epoca si verificarono gli insediamenti slavi (croati) del Molise (➔ serbocroata, comunità); al Trecento risale invece il ripopolamento di Alghero in Sardegna da parte di genti provenienti dalla Catalogna. Gruppi di dialetto provenzale (e originariamente di confessione valdese) si stanziarono a loro volta in Calabria nel XV secolo (Guardia Piemontese), altri di dialetto francoprovenzale si stabilirono in epoca imprecisata nella Puglia settentrionale (Faeto e Celle San Vito). Quest’ultimo popolamento non va probabilmente disgiunto, per epoca e circostanze, dall’immigrazione in Sicilia, in Basilicata e nel Cilento di popolazioni parlanti dialetti italiani settentrionali di area ligure e piemontese meridionale (galloitalici; ➔ gallo-italica, comunità), che costituiscono un altro caso di parlata alloglotta, così definibile in rapporto al continuum dialettale in cui si trovano inserite. A maggior ragione alloglotta, perché integrata in un contesto a sua volta alloglotto rispetto al resto d’Italia, è l’isola linguistica tabarchina in Sardegna (➔ tabarchina, comunità). Alloglotti con tradizioni storiche antiche (risalenti almeno al Trecento) sono inoltre i gruppi zingari presenti in Italia, dispersi in collettività nomadi appartenenti ai ceppi Sinti (prevalenti nell’Italia settentrionale) e Rom (accresciuti di recente dall’immigrazione dall’Est europeo; ➔ zingare, comunità). 
La nozione di alloglossia viene comunemente estesa in Italia anche al sistema dei dialetti sardi (➔ sardi, dialetti), che si considerano come un gruppo romanzo autonomo rispetto a quello dei dialetti italiani; e ai dialetti friulani e ladini, spesso integrati in una superiore unità ‘retoromanza’, e la cui peculiarità è legata al persistere di condizioni di maggiore arcaicità rispetto alle contermini parlate italiane settentrionali. Per una parte almeno dell’area di dialetto ladino (➔ ladina, comunità) va del resto sottolineato che il mantenimento delle parlate locali si verificò in un ambito culturale prevalentemente germanico, e che lo sviluppo di una specifica identità ladina ha seguito fino a tempi recenti le vicende legate al contesto territoriale tirolese, fatto che ha accresciuto il senso collettivo di specificità della popolazione interessata. 
Alle situazioni che compongono la mappa delle alloglossie storiche presenti in Italia e comunemente note come minoranze linguistiche (Toso 2008), si dovrebbero aggiungere infine alcuni casi specifici: in primo luogo gli usi linguistici di comunità religiose disperse, come quella ebraica (➔ giudeo-italiano) e quella armena, che fanno un uso liturgico di lingue diverse dall’italiano; poi i gruppi di popolazione che parlano dialetti italiani all’interno di aree territoriali in cui è diffusa una lingua minoritaria: dialetti veneti in Friuli, dialetti corsi (sassarese, gallurese e maddalenino) nella Sardegna settentrionale. 
Carattere di storicità andrebbe ormai riconosciuto, inoltre, a gruppi di popolazione dialettofona trasferiti compattamente in aree diverse da quella d’origine, come i Veneti della Toscana, dell’Agro Pontino e della Sardegna chiamati dal governo fascista (➔ fascismo, lingua del; ➔ politica linguistica) a colonizzare aree di bonifica negli anni Trenta (Telmon 1994). 

Criteri di classificazione. Una classificazione genealogica degli idiomi coinvolti nella categoria delle alloglossie consente di apprezzare la ricchezza di tale patrimonio linguistico storico in Italia, certamente tra i più variegati dell’Europa occidentale: esso comprende infatti idiomi di origine semitica (l’ebraico come lingua liturgica), indoeuropea a sé stante (greco, albanese e armeno come lingua liturgica), indoiranica (dialetti zingari), germanica (tedesco standard e dialetti tirolesi in Alto Adige, gruppi minori dell’area alpina), slava (sloveno standard e dialetti sloveni tra Friuli e Venezia Giulia, croato del Molise), neolatina galloromanza (francese, dialetti francoprovenzali e provenzali), iberoromanza (catalano), italoromanza (galloitalico del Meridione e tabarchino), neolatina a sé stante (dialetti sardi, dialetti friulani e ladini). 
Il panorama delle alloglossie storiche in Italia appare assai vario e articolato anche per distribuzione geografica (lungo i confini settentrionali e nel contesto meridionale e insulare) e per peso demografico: sono minoranze numericamente consistenti quelle regionali sarda (oltre un milione di parlanti) e friulana (almeno 400.000 parlanti), quella sudtirolese (oltre 250.000), quella zingara (circa 120.000) e in minor misura (ma pur sempre con più di 50.000 parlanti) quella valdostana implicata nell’uso ufficiale del francese (che però non è se non eccezionalmente lingua materna dei parlanti), quella slovenofona, quella albanofona e quella galloitalica di Sicilia. In rapporto ai parametri UNESCO di vitalità e di tenuta nell’uso parlato, Berruto (2009: 341) definisce poi «in regressione» il sardo, i dialetti zingari, lo sloveno in provincia di Udine, il francoprovenzale in Valle d’Aosta, l’albanese, il provenzale e il catalano (a cui va aggiunto il galloitalico di Sicilia); in «forte regressione» i dialetti germanici minori, il francoprovenzale della Puglia, il greco e il croato molisano; in «lieve regressione» il friulano e il ladino (a cui va aggiunto il tabarchino, caratterizzato da una notevole tenuta); sono «non minacciate», come si è visto, le lingue delle minoranze nazionali. 

Minoranze italofone all’estero. Quanto alla presenza dell’italiano come lingua minoritaria storica all’estero, essa si limita di fatto alla Slovenia e alla Croazia, dove si riconoscono e tutelano come minoranze nazionali gruppi autoctoni che praticano tradizionalmente dialetti veneti e istrioti, e alla Bosnia-Erzegovina e Romania, dove si riconosce la presenza di una minoranza linguistica italofona risalente alla fine dell’Ottocento. Questo fatto è indicativo tra l’altro dei diversi parametri di storicità che si adottano a seconda delle tradizioni culturali nei diversi paesi, tali da costituire un serio ostacolo nella definizione di una politica comune europea in tema di tutela delle minoranze linguistiche. 
In Francia, lo status di lingue minoritarie si riconosce invece a dialetti italoromanzi come il còrso e il ligure (nel Nizzardo e a Bonifacio in Corsica), ma non all’italiano standard, che neppure si propone come lingua tetto ideale di tali realtà; nel Principato di Monaco il dialetto monegasco è lingua nazionale accanto al francese (che è la lingua ufficiale), mentre l’italiano standard gode (come del resto a Malta) di una notevole diffusione, pur essendo privo di qualsiasi status. 
A San Marino e in Svizzera non si può parlare formalmente di situazioni di minorità, in quanto l’italiano è a tutti gli effetti unica lingua ufficiale della piccola Repubblica (dove è diffuso un dialetto romagnolo) e del Canton Ticino e delle valli italofone del Canton Grigioni (aree di dialetto lombardo) (➔ Svizzera, italiano di); nella Confederazione Elvetica l’italiano è inoltre una delle quattro lingue ufficiali della nazione, anche se, assieme al retoromancio, gode di uno statuto particolare che ne riconosce il carattere minoritario a livello confederale. 
La presenza dell’italiano e dei dialetti in paesi caratterizzati da una forte immigrazione dall’Italia conferma l’ambiguità terminologica del concetto di minoranza linguistica, in base al quale, in accezione ampia, si dovrebbe parlare di minoranze italiane, anche consistenti, almeno in paesi europei come la Germania, la Francia, la Svizzera o il Belgio, e in paesi extraeuropei come gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina, l’Uruguay, il Venezuela, il Brasile e l’Australia, paese quest’ultimo dove le lingue immigrate (➔ emigrazione, italiano dell’), tra cui l’italiano, godono comunque di alcune forme di riconoscimento. 

La tutela delle minoranze linguistiche in Italia. Prevista dall’art. 6 della Costituzione, la tutela delle minoranze linguistiche in Italia ha riguardato fino a tempi recenti le sole minoranze nazionali (➔ legislazione linguistica). L’uso co-ufficiale del tedesco in Alto Adige e del francese in Valle d’Aosta fu previsto da accordi internazionali al termine della seconda guerra mondiale, mentre quello dello sloveno di Trieste e Gorizia (ma non dei dialetti sloveni in provincia di Udine) fu regolato a partire dagli accordi di Osimo con la Iugoslavia (1975); inoltre, i provvedimenti relativi al bilinguismo in provincia di Bolzano e i loro controversi meccanismi applicativi hanno riguardato anche la minoranza ladina del Sudtirolo (ma non quella delle province di Trento e di Belluno). Alla fine del 1999, dopo un iter complesso e una discussione che coinvolse l’opinione pubblica e gli ambienti politici e intellettuali (sollecitata anche dall’approvazione da parte del Consiglio d’Europa di una raccomandazione nota come Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, 1992), si approdò a un provvedimento legislativo in materia di «tutela delle minoranze linguistiche storiche». In realtà la legge n. 482/1999, in contrasto col dettato costituzionale (che all’art. 6 sancisce la tutela «con apposite leggi» delle minoranze linguistiche, senza introdurre distinzioni di sorta, e all’art. 3, comma 2, sancisce l’uguaglianza «sostanziale» e il «compito» della Repubblica di «rimuovere gli ostacoli» che impediscano la piena realizzazione dell’eguaglianza ‘formale’ di tutti «senza distinzione […] di lingua»), parte dall’interpretazione del concetto di minoranza linguistica storica come alloglossia (escludendo peraltro alcuni casi appartenenti a questa categoria), e dal presupposto che i ➔ diritti linguistici riconosciuti alle minoranze nazionali vadano estesi, per preservarne il patrimonio culturale, alle minoranze linguistiche storiche riconosciute (Orioles 2003). 
La confusione tra i concetti di diritto linguistico e di patrimonio linguistico ha introdotto così una discriminazione all’interno di quest’ultima categoria, riconoscendo come suscettibili di tutela solo quelle componenti di essa (un certo numero di alloglossie) alle quali è stato riconosciuto il carattere di «minoranze linguistiche storiche». Non solo l’elencazione imprecisa e parziale, ma anche le modalità di delimitazione degli ambiti territoriali interessati (lasciata di fatto alle amministrazioni locali) contribuirono a un sostanziale fallimento del provvedimento legislativo. Si sono così moltiplicate le polemiche nell’ambito dei contesti linguistici rimasti fuori dal provvedimento (censurato anche dalle istituzioni europee per l’esclusione della lingua zingara; Consani & Desideri 2007), le interpretazioni disinvolte dei criteri di ‘zonizzazione’ (l’accesso ai finanziamenti previsti ha indotto, ad es., molti comuni di tradizioni dialettali piemontesi, liguri e venete a dichiarare inesistenti appartenenze minoritarie) e le applicazioni volte ad affermare (eludendo le tradizioni di plurilinguismo e pluriglossia tradizionalmente presenti sul territorio) la sostanziale equiparazione delle alloglossie alla lingua ufficiale e alle lingue co-ufficiali presenti in Italia, con l’elaborazione di modelli standardizzati privi per lo più di corrispondenza con le esigenze comunicative e identitarie delle popolazioni interessate. 
Il vero problema della tutela dei patrimoni linguistici minoritari resta, in realtà, la difficoltà di rafforzare la consapevolezza della funzionalità di una consuetudine plurilingue presso comunità di parlanti ormai da tempo orientate verso un’adesione incondizionata a codici comunicativi di maggiore prestigio. È evidente che, al di là di iniziative di ricerca e di studio da condursi col supporto di idonei strumenti scientifici, le forme della tutela (a parte il caso delle minoranze nazionali) non dovranno tanto essere rivolte alla promozione di diritti linguistici, neppure percepiti come tali dagli interessati, né a una gestione burocratica e verticistica del bene culturale lingua, quanto a un’educazione al rispetto e alla conoscenza dei patrimoni linguistici minoritari (alloglotti e non) come componenti essenziali, nel loro insieme, del patrimonio culturale del paese.
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Minoranza & alloglossia: definizione

Per minoranze linguistiche si intendono gruppi di popolazione che parlano una lingua materna diversa da quella di una maggioranza: quest’ultima si identifica normalmente coi parlanti che hanno come lingua materna la lingua ufficiale dello Stato di cui sono cittadini. In accezione stretta, sono dunque minoranze anche quanti parlano un dialetto (intendendo con questo termine un idioma geneticamente autonomo, utilizzato in condizione di subordine rispetto alla lingua di maggior prestigio) o una lingua di recente importazione. Sotto questo punto di vista si può così definire minoranza linguistica, ad es., anche l’insieme dei parlanti abruzzese (o un singolo dialetto abruzzese), o degli immigrati che parlano il romeno (Telmon 1992). Diversamente da quanto avviene in altri paesi occidentali, però, il concetto di minoranza linguistica ha assunto in Italia un’accezione più ristretta (Toso 2006), sovrapponendosi a quello di alloglossia, che identifica varietà minoritarie aventi un’origine nettamente distinta rispetto alla lingua ufficiale e al diasistema dei dialetti italiani.
Il concetto di alloglossia viene spesso associato al carattere presuntamente ‘allogeno’ delle popolazioni: già ➔ Graziadio Isaia Ascoli (1861) parlava di «colonie straniere in Italia» per le comunità alloglotte da lui individuate, in base al presupposto di una corrispondenza tra confini geografici ed etnico-linguistici. Alla confusione tra i concetti di minoranza linguistica e di alloglossia si aggiunge spesso il ricorso a parametri di ‘storicità’ (presenza antica della minoranza alloglotta all’interno dei confini di stato) e ‘territorialità’ (radicamento della minoranza stessa su una determinata porzione di territorio): in tal modo però si escludono dal concetto di minoranza linguistica non solo i dialettofoni italiani, ma anche chi parla lingue alloglotte di importazione recente (lingue ‘immigrate’; ➔ acquisizione dell’italiano come L2) e quelle (presenti da secoli in Italia) di popolazioni nomadi o disperse (➔ zingare, comunità).
Storicamente, la confusione tra minoranza linguistica e alloglossia nasce in Italia per due motivi. Da un lato, la difficoltà di tenere distinto l’insieme di ‘minoranze’ rappresentato dagli utenti della dialettofonia tradizionale da una ‘maggioranza’ che di fatto, soprattutto nella situazione sociolinguistica attuale, vi corrisponde. Dall’altro, l’ulteriore confusione tra i concetti di minoranza linguistica (o, con termine di discutibile valenza scientifica, etnico-linguistica) e minoranza nazionale: quest’ultimo indica in particolare gruppi di popolazione presso i quali la diffusione di una lingua si associa all’affermazione di un differente senso di appartenenza rispetto alla maggioranza, col prevalere di caratteri ‘nazionali’ rivendicati come altrettanti segnali di adesione a un’identità collettiva diversa.
La distinzione tra minoranza nazionale e minoranza linguistica si può verificare, ad es., nel caso della popolazione germanofona dell’Alto Adige (➔ tedesca, comunità), che si riconosce per una serie di motivi (non soltanto linguistici) in una identità nazionale austriaca; mentre si può parlare di una minoranza nazionale catalana in Spagna, ma non in Italia, dove le tradizioni linguistiche della città di Alghero (➔ catalana, comunità) non determinano un diverso sentimento di appartenenza della popolazione catalanofona. Del resto, dal punto di vista linguistico, nel caso delle minoranze nazionali ciò che determina un’alterità è non tanto il persistere degli usi tradizionali, quanto l’impiego storico, accanto all’italiano, di una lingua ufficiale e di cultura diversa da esso: in Valle d’Aosta (➔ francese, comunità), così, è l’uso co-ufficiale del francese a fornire le prerogative di minoranza nazionale a una popolazione che nella prassi parlata adopera tale lingua in percentuale irrisoria, usando tradizionalmente, negli usi quotidiani, varietà dialettali di tipo francoprovenzale (e, oggi, prevalentemente l’italiano; ➔ francoprovenzale, comunità).
La suddivisione tra minoranze nazionali e minoranze linguistiche porta a considerare l’importante distinzione (Berruto 2009) tra lingue minoritarie e lingue minacciate. Infatti, se è vero che la condizione di minorità implica in genere una situazione di crisi degli usi tradizionali, fino all’obsolescenza e alla morte della lingua, è altrettanto evidente che le lingue delle minoranze nazionali, soggette a tutela in base ad accordi internazionali e praticate in contesti di co-ufficialità nella varietà standard che gode di prestigio e di ufficialità nei paesi di riferimento, appaiono meno esposte degli idiomi delle minoranze linguistiche a un’erosione delle proprie prerogative: solo il tedesco in Alto Adige, il francese in Valle d’Aosta e lo sloveno a Gorizia e Trieste risultano non a caso, secondo Berruto (2009: 341), lingue minoritarie non minacciate in Italia.
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lunedì 24 giugno 2013

Lingue celtiche & Gaelico

Le lingue celtiche.
Le lingue celtiche sono idiomi che derivano da celtico comune o proto-celtico, un tempo parlate (intorno al I millennio A.C.) in gran parte d’Europa dal Golfo di Guascogna al Mar del Nord, nelle zone comprese tra il Reno e il Danubio fino al Mar Nero e Galizia. Queste lingue sono oggi parlate in poche zone della Gran Bretagna, dell’Irlanda, nell’Isola di Man e nella regione Bretagna in Francia.
Il proto-celtico a sua volta è diviso in quattro gruppi linguistici differenti:
• Un primo gruppo distingue il gallico, il lepontico, il norico e il galato. Queste lingue erano molto diffuse dal Belgio al Nord Italia e dalla Turchia alla Francia.
• Un secondo gruppo comprende il celtiberico, un tempo parlato nella penisola iberica, dal Portogallo centro-meridionale fino ad alcune regioni della Spagna come la Galizia, le Asturie e in Cantabria.
• Il terzo gruppo è rappresentato dal goidelico che racchiude l’irlandese, il mannese e il gaelico scozzese, parlate tutt’oggi.
• L’ultimo gruppo, infine è rappresentato dal brittonico che include il bretone, il gallese e il cornico (parlate tutt’ora), e il cumbrico.
Un altro schema di classificazione vede le lingue celtiche raggruppate in due gruppi distinti: le lingue celtiche insulari comprendenti il goidelico e il brittonico e le lingue celtiche continentali che comprendono il celtiberico e il gallico. Lo scopo di questa distinzione è dovuto al fatto che le differenze fra le lingue goideliche e quelle brittoniche hanno avuto origine dopo la separazione fra lingue continentali e insulari. Inoltre, le lingue celtiche insulari sono parlate ancor’oggi in diverse regioni, mentre quelle continentali sono del tutto estinte.
 Alcune particolarità delle lingue celtiche sono:
 • ordine dei costituenti della frase (VSO; e quindi Verbo, Soggetto, Complemento Oggetto);
• scomparsa degli infiniti, che vengono sostituiti di norma da un nome verbale;
 • mancanza del verbo “avere”, normalmente espresso per mezzo della costruzione “essere”+ preposizione .



La storia della lingua irlandese: le lingue goideliche e il gaelico irlandese.

Le lingue goideliche. Sono un ramo delle lingue celtiche insulari portate tra il III e il VI secolo dai celti d’Irlanda (noti dai romani come Scoti) comprendenti anche il gaelico scozzese e il mannese. Diffuse in Galizia, Portogallo, alcune zone della Svizzera e Austria e nell’area di Marsiglia e della Senna, l’unica forma scritta del Goidelico è l’Ogham, utilizzato dal IV al XV secolo e la sua forma scritta più antica è l’irlandese primitivo , che mostra caratteristiche morfologiche e flessive simili al gallese, latino, greco classico e sanscrito.

Il gaelico irlandese – cenni storici. Il gaelico irlandese o semplicemente irlandese (Gaeilge), appartiene al gruppo delle lingue goideliche o gaeliche ed è la lingua nazionale della Repubblica d’Irlanda, nonché la “principale lingua ufficiale” dell’Irlanda secondo l’articolo 8 della costituzione irlandese. Inoltre, dal 1° gennaio 2007 l’irlandese è anche una delle lingue ufficiali dell’Unione europea.
 Tracce della lingua irlandese si hanno sin da prima del IV secolo: si pensi alle iscrizioni in alfabeto ogamico ma è chiaro comunque che in quel periodo in Irlanda si parlasse già irlandese, noto come irlandese arcaico, che a sua volta sembra avere soppiantanto le lingue parlate precedentemente in Irlanda (di cui non si ha alcuna attestazione diretta ma che comunque hanno lasciato segni nel sostrato linguistico dell’irlandese), restando dunque l’unica lingua parlata nel territorio irlandese sino all’arrivo del Cristianesimo tra il IV e il V secolo, nel periodo in cui la Gran Bretagna era invasa dai Romani. A tale periodo risalgono alcuni prestiti latini dell’irlandese, altri termini latini sono giunti in Irlanda tra il 600 e il 900 d.C., con il ritorno dei peregrini, monaci irlandesi e scozzesi in missione sul continente per l’esercizio di attività monastiche. Questo portò alla formazione dell’irlandese antico, molto standardizzato e privo di frazionamento dialettale.
 Con l’arrivo dei vichinghi verso la fine dell’VIII secolo, il territorio irlandese entrerà in contatto con altre lingue ma, nonostante iniziali razzie e saccheggi e l’insediamento degli scandinavi nelle città costiere come commercianti, i segni lasciati da queste popolazioni sono pochi: i prestiti scandinavi difatti, risultano essere circa sessanta. Ma l’entrata dei vichinghi insieme ai disordini sociali e politici di questo periodo hanno favorito il passaggio dall’irlandese antico all’irlandese medio (900-1200): quest’ultimo infatti, si discosta molto dal precedente per quanto riguarda la grammatica, dalla semplificazione delle forme verbali all’ortografia.
Dopo il 1169 l’irlandese subì l’influsso normanno, dando vita all’irlandese classico. Il periodo normanno, tuttavia, godette di stabilità linguistica e ricchezza letteraria, nonostante i nobili normanni cercarono in tutti i modi di spartirsi l’isola con alcuni signori locali e comunque non riuscirono mai a conquistarla totalmente né ad assimilarla culturalmente, per via di alcuni territori dei margini occidentali e settentrionali soggetti si a tributi, ma molto indipendenti sotto l’aspetto politico-culturale.
L’inglese nel frattempo si era affermato solo nella zona di Dublino (detta “The Pale”) e di Wexford. Neanche con gli statuti di Kilkenny nel 1366 (che vietavano ai coloni inglesi di usare l’irlandese) la lingua inglese potè espandersi.
Durante il XVI e il XVII alcuni agricoltori irlandesi e scozzesi si stanziarono in alcune zone dell’Irlanda, ma ciò comunque non cambiò di molto la situazione precedente: il popolo parlava per lo più l’irlandese, i nobili sia l’irlandese che l’inglese, ma a poco a poco cominciò a calare il numero dei parlanti irlandese e l’espulsione degli ultimi nobili gaelici nel 1607 (Fight of The Earls) fece sì che il gaelico non ebbe più legami con le classi elevate. Da qui la nascita del neoirlandese o irlandese moderno.
Ma ciò che più di tutti contribuì ad arretrare la lingua irlandese fu l’industrializzazione cominciata alla fine del XVIII secolo, con l’avvento inoltre di una grande carestia che costrinse a chi voleva sopravvivere ad emigrare nelle città e ad imparare l’inglese. Così la lingua irlandese cominciò ad essere vista come la lingua dei poveri, dei vagabondi, dei contadini e quest’idea poco alla volta si diffuse anche al di fuori delle città. Da questo momento in poi sarà la lingua inglese a soppiantare l'irlandese.
Ma verso la fine del XIX secolo e in particolar modo dopo l’indipendenza d’Irlanda nel 1922 si sentì il bisogno di far rivivere l’irlandese, considerando anche che il censimento del 1891 fece emergere il basso numero dei parlanti irlandese: circa 680000 erano parlanti irlandese, ma solo il 3% circa dei bambini di età compresa tra i tre e i quattro anni parlava l’irlandese. Ciò fu possibile anche grazie al miglioramento dello status sociale dell’irlandese: il numero dei parlanti madrelingua è crollato di molto, ma il numero degli irlandesi che padroneggiano la lingua con lingua seconda a livello attivo e passivo è notevolmente aumentato: soprattutto nei grandi centri molti anglofoni ormai conoscono abbastanza bene e utilizzano l’irlandese. Influssi negativi della situazione linguistica tra il XX e il XXI sono dovuti alla crescente mobilità delle persone, ai massmedia e al contatto ravvicinato fra anglofoni e parlanti irlandese.
Con il censimento del 2002 è emerso che circa il 43% della popolazione afferma di conoscere l’irlandese e circa 70000 di essi sono madrelingua e tra essi non tutti utilizzano l’irlandese in ogni situazione .
Il gaelico irlandese oggi. L’irlandese è oggi presente un po’ dovunque in Irlanda: ad esempio su tutta l’isola, le indicazioni stradali e i nomi delle vie sono scritte sia in inglese che in irlandese. È però difficile sentir parlare in Irlanda il gaelico se non in alcune zone particolari o nei maggiori centri come Dublino e Galway e inoltre esso è parlato solo da persone di una certa età e di estrazione colta e si tratta di irlandese standard. È possibile però che in alcune facoltà l’irlandese sia materia d’insegnamento (soprattutto nelle materie umanistiche e di lingua e cultura celtica). Lo studio dell’irlandese però, è obbligatorio nelle scuole ma le lezioni al di fuori dell’irlandese come materia scolastica avvengono perlopiù in inglese. Sono soprattutto i giovani che non vedono di buon occhio l’insegnamento dell’irlandese nelle scuole perché ritengono che sia antiquato e inutile dal momento che questa lingua non viene utilizzata nel commercio internazionale. Nel ceto medio urbano colto il gaelico irlandese è ristretto per la maggior parte al contesto familiare e/o passivo. Per strada e nelle conversazioni informali è difficile poter udire persone che parlino irlandese ma nelle conversazioni fra studenti universitari, ricercatori e artisti si coglie sempre l’occasione per poter scambiare qualche parola in irlandese, del resto a Dublino non mancano alcuni club e caffè dove si parla solo il gaelico irlandese. La letteratura irlandese è piuttosto vivace: spesso si organizzano festival, inoltre nelle edicole e nelle librerie si possono acquistare libri in irlandese. Molti negozi frequentati dai turisti invece vendono grandi quantità di adesivi, souvenir e gadget vari con parole o espressioni in irlandese. Esistono inoltre diversi emittenti radio e televisive e quotidiani in lingua irlandese e, anche laddove lo scambio di informazioni avviene in inglese, non di rado si incontrano espressioni irlandesi: un esempio ne sono alcune istituzioni statali e pubbliche che hanno denominazioni esclusivamente in irlandese e spesso quest’ultime vengono utilizzate accanto alla forma inglese: (sono numerose ma ne indico solo alcune come esempio):
• Il nome del paese Eire (in quasi tutte le cartine geografiche lo si incontra insieme ad “Ireland”),
• Telecom Eireann, in inglese Telecom (Telecom d’Irlanda).
• Il parlamento (An tOireachtas), il senato (Seanad Eireann) e i nomi di tutti i ministeri (Roinn+ gli ambiti al genitivo), inoltre An Taoiseach è il nome che indica il Primo Ministro e gardai (Police) ovvero la polizia. Inoltre, i testi di tutte le leggi vanno emanati anche in lingua irlandese, per evitare i casi di ambiguità, anche se nella prassi ciò non viene applicato: nelle sentenze viene consultato il testo in inglese e la redazione in irlandese viene pubblicata in un secondo momento.
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lunedì 12 novembre 2012

Lingua Aramaica

L'aramaico è una lingua semitica che vanta circa 3.000 anni di storia. In passato, fu lingua di culto religioso e lingua amministrativa di imperi. È la lingua in cui furono in origine scritti il Talmud e una parte dei libri biblici di Daniele e di Ezra. Era la lingua parlata correntemente in Israele ai tempi di Gesù. Attualmente, l'aramaico è utilizzato nei villaggi di Ma'lula, Jabadin e Bakha in Siria. L'aramaico appartiene alla famiglia linguistica delle lingue afro-asiatiche e alla sottofamiglia delle lingue semitiche (più precisamente, il gruppo nordoccidentale di cui fanno parte le lingue cananaiche, tra cui l'ebraico).

Distribuzione geografica
Durante il XII secolo a.C., gli Aramei, cioè la popolazione originaria della lingua aramaica e stanziati nell'odierna Siria, incominciarono a stabilirsi nelle terre che oggi fanno parte degli attuali Israele, Siria, Iraq e Turchia. L'aramaico giunse così ad essere parlato in un'area compresa tra le coste orientali del Mar Mediterraneo e il fiume Tigri. Gli ebrei della diaspora portarono la lingua in Nordafrica e in Europa, mentre i missionari cristiani la utilizzarono predicando in Persia, India e persino Cina. Dal VII secolo tuttavia, l'arabo subentrò all'aramaico quale lingua franca del Vicino Oriente. Comunque l'aramaico rimase la lingua liturgica e letteraria di ebrei, Mandei e alcune confessioni cristiane. Attualmente l'aramaico è ancora utilizzato da piccole comunità sparse nel suo antico areale di espansione. Gli sconvolgimenti degli ultimi due secoli, fra cui soprattutto le persecuzioni di cristiani ad opera dei turchi, ha portato molti gruppi di lingua aramaica a cercare rifugio in vari paesi del mondo.

Dialetti e lingue dell'aramaico. L'aramaico costituisce più un gruppo di lingue imparentate piuttosto che una lingua con vari dialetti. La lunga storia dell'aramaico, la ricchezza della sua letteratura e il suo utilizzo da parte di diverse comunità religiose sono tutti fattori che hanno contribuito alla sua diversificazione (tant'è che solo alcuni "dialetti" sono mutualmente intelligibili). Alcune lingue aramaiche sono conosciute con diversi nomi: per esempio, il termine "siriaco" è usato per designare l'aramaico utilizzato da varie comunità cristiane del Vicino Oriente. I dialetti si possono dividere tra occidentali e orientali, con l'Eufrate (o poco più ad ovest di esso) a fare da linea di confine. Inoltre è utile distinguere fra le lingue aramaiche ancora in uso (spesso definite come "neo-aramaico"), quelle utilizzate solo in ambito liturgico e letterario e quelle che sono estinte (definite rispettivamente, malgrado alcune eccezioni, come aramaico "moderno", medio" e "antico").

Sistema di scrittura
Il primo alfabeto aramaico era basato sulla scrittura fenicia, ma col tempo sviluppò un proprio stile "squadrato". Gli antichi Israeliti e altri popoli di Canaan adottarono questo alfabeto per le proprie lingue, così al giorno d'oggi è più noto come alfabeto ebraico. Questo è il sistema di scrittura usato per l'aramaico biblico e per altri scritti ebraici in aramaico. L'altro principale sistema di scrittura per questa lingua fu sviluppato dalle comunità cristiane: uno stile corsivo chiamato alfabeto siriaco (le pagine a sinistra sono scritte in Serto, una delle derivazioni di questo alfabeto). Una forma molto modificata dell'alfabeto aramaico, l'alfabeto mandeo, è usata dai Mandei. In aggiunta a questi sistemi di scrittura, alcune versioni dell'alfabeto aramaico furono usate nell'antichità da alcuni popoli: i Nabatei di Petra, o nel Regno di Palmira. In tempi moderni, il Turoyo (vedi sotto) è stato scritto con un adattamento dell'alfabeto latino.

Storia
Segue una storia dell'Aramaico divisa in tre periodi maggiori:
• Aramaico antico (1100 a.C.–200), include: o L'Aramaico biblico della Bibbia ebraica. o L'Aramaico di Gesù. o L'Aramaico dei Targum.
• Aramaico medio (200–1200), include: o La lingua lettararia siriaca. o L'Aramaico dei Talmud e Midrashim.
• Aramaico moderno (1200–presente), include: o Vari vernacoli moderni.
Questa classificazione è basata su quella usata da Klaus Beyer.


  • Aramaico antico. Questa fase copre tredici secoli di storia della lingua, e comprende tutte le varietà della stessa che non sono più parlate. La svolta dell'Aramaico antico avvenne attorno al 500 a.C., quando l'Aramaico arcaico (la lingua degli Aramei) divenne l'Aramaico imperiale (la lingua di potenti imperi). I vari dialetti di Aramaico acquistano importanza quando il Greco rimpiazza questo nelle sale del trono locali. Aramaico arcaico.  Col termine "Aramaico arcaico" ci si riferisce all'Aramaico degli Aramei dalle sue origini fino a quando divenne la "lingua franca" della Mezzaluna fertile. Fu la lingua di Damasco, Hamath e Arpad. 1) Primo Aramaico arcaico. Varie iscrizioni testimoniano l'uso delle prime forme di Aramaico fin dal X secolo a.C. La maggior parte di queste sono messaggi diplomatici scambiati tra le città-stato degli Aramei. L'ortografia di quel periodo sembra basarsi su quella fenicia, e la scrittura è unita. Sembra che una nuova ortografia, più adatta alla lingua, si sia sviluppata a partire da questa nelle regioni orientali di Aram. Strano a dirsi, la conquista di Aram da parte dell'Imperatore assiro Tiglatpileser III alla metà dell'VIII secolo a.C. impose l'Aramaico come "lingua franca" in tutto il Medio Oriente. 2)Tardo Aramaico arcaico.  A partire dal 700 a.C. circa, la lingua aramaica cominciò a diffondersi in tutte le direzioni, ma perse la sua omogeneità. Cominciarono a differenziarsi dialetti in Mesopotamia, a Babilonia, nel Medio Oriente e in Egitto. Col tempo si impose l'Aramaico con influenze accadiche parlato in Assiria e a Babilonia. Come descritto in 2Re 18:26 Ezechia, Re di Giuda, conduce i negoziati cogli ambasciatori assiri in Aramaico, affinché la gente comune non possa capire. Attorno al 600 a.C. Adone, un Re Canaanita, usa questa lingua per scrivere al Faraone egizio. L'Aramaico parlato sotto la dinastia Caldea di Babilonia veniva chiamato col termine "Caldeo" o "Aramaico Caldeo", termine usato anche per l'Aramaico della Bibbia, appartenente comunque ad uno stile più tardo. Non deve essere confuso col moderno Neo-Aramaico Caldeo. 3) Aramaico d'impero. Intorno al 500 a.C. Dario I rese l'Aramaico lingua ufficiale della metà occidentale dell'Impero persiano Achemenide. I burocrati di Babilonia usavano già questa lingua in gran parte dei loro atti, ma l'editto di Dario diede stabilità a questa. Il nuovo "Aramaico d'Impero" era altamente standardizzato: la sua ortografia si basava più su basi storiche che su un qualche dialetto effettivamente parlato, e l'influenza del Persiano gli diede una nuova chiarezza e flessibilità. L'Aramaico d'Impero è a volte chiamato "Aramaico ufficiale" o "Aramaico biblico". Esso rimase, nella forma prescritta da Dario o in una abbastanza vicina da essere riconoscibile, la lingua principale della regione per secoli dopo la caduta dell'Impero Achemenide (331 a.C). L'"Aramaico Achemenide" è quello usato dall'editto di Dario (500 a.C. circa) ad un secolo dopo la caduta dell'Impero (331 a.C.). Molte delle testimonianze scritte rimaste di questa lingua vengono dall'Egitto, e in particolare da Elefantina. Di queste la più significativa è la "Saggezza di Ahiqar", un libro di aforismi simile al Libro dei Proverbi presente nella Bibbia. L'Aramaico Achemenide è così omogeneo che è spesso difficile dedurre la provenienza di un'opera basandosi solo sul testo: solo un'analisi accurata rivela qualche parola derivata dal linguaggio locale. Aramaico post-Achemenide. La conquista da parte di Alessandro Magno non distrusse immediatamente la compattezza della lingua e della letteratura aramaica. Un linguaggio relativamente simile a quello del V secolo a.C. può essere trovato fino all'inizio del II secolo a.C. I Seleucidi imposero il Greco in Mesopotamia e in Siria fin dall'inizio del loro dominio. Nel III secolo a.C. il Greco sostituì l'Aramaico come lingua volgare in Egitto e Palestina del nord. Un Aramaico post-Achemenide continuò comunque a fiorire dalla Giudea all'Arabia e alla terra dei Parti, attraverso il deserto Siriano. Il mantenimento di questa lingua rappresentava un deciso gesto di indipendenza anti-ellenista. L'Aramaico biblico è l'Aramaico che si può trovare in quattro diverse sezioni della Bibbia ebraica:
Ezra 4:8-6:18 e 7:12-26 — documenti del periodo Achemenide (IV secolo a.C.) riguardo la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme; Daniele 2:4b-7:28 — cinque racconti sovversivi e una visione apocalittica; Geremia 10:11 — una singola frase nel mezzo di un testo ebraico che denuncia l'idolatria; Genesi 31:47 — traduzione del nome ebraico di un luogo.

L'Aramaico biblico è una specie di dialetto ibrido: una parte del materiale deve essere stata prodotta sia in Giudea che a Babilonia, prima della caduta della dinastia Achemenide. Durante il regno dei Seleucidi, la propaganda ribelle ebraica modificò il materiale in Aramaico su Daniele. A quel tempo queste storie esistevano probabilmente nella prima forma di racconti orali. Questa potrebbe essere la principale motivazione delle differenze riscontrabili tra le citazioni di Daniele nei Septuaginta greci e nel Testo masoretico, che presenta un Aramaico leggermente influenzato dall'ebraico.
Rientra nella categoria di "post-Achemenide" l'Aramaico Maccabeo, la lingua ufficiale della Giudea Maccabea (142 a.C.-37 a.C.). Esso influenzò l'Aramaico biblico dei testi di Qumran, ed era la lingua principale dei testi teologici non biblici di quella comunità. I Targum maggiori, traduzioni della Bibbia ebraica in Aramaico, furono originalmente scritte in Maccabeo. Questo appare inoltre nelle citazioni della Mishnah e della Tosefta, anche se attenuato nel contesto più recente. Il Maccabeo presenta molte differenze con l'Achemenide: viene posta più attenzione all'evidenziare la pronuncia delle parole che all'uso di forme etimologiche.
L'Aramaico dei Targum di Babilonia è l'ultimo dialetto post-Achemenide trovato neli Targum Onkelos e nel Targum Jonathan, i Targum "ufficiali". Il Targum Maccabeo originale aveva raggiunto Babilonia nel II o III secolo, e lì furono rielaborati con l'influenza della lingua locale per formare la lingua dei Targum di riferimento. Questa fu la base della letteratura ebraica di Babilonia per i secoli a venire. La lingua dei Targum della Galilea è simile a quella dei Targum di Babilonia: è un ibrido tra il Maccabeo letterario e il dialetto della Galilea. Il Targum Maccabeo raggiunse la Galilea nel II secolo, e fu tradotto in questo dialetto per la popolazione locale. Il Targum della Galilea non fu mai considerato un'opera autorevole, e i documenti rivelano che il testo fu riadattato ogni volta che si rese necessario un "ritocco". A partire dall'XI secolo il Targum di Babilonia divenne la versione ufficiale, e quello di Galilea ne fu pesantemente influenzato. L'Aramaico documentario babilonese è un dialetto in uso a Babilonia a partire dal III secolo nei documenti privati e, a partire dal XII secolo, in tutti i documenti privati ebraici scritti in Aramaico. Questo dialetto si basa sul Maccabeo con pochissimi cambiamenti; questo forse perché veniva usato in documenti legali, che dovevano essere compresi in tutta la comunità ebraica fin dall'inizio, e il Maccabeo era l'antico standard. L'Aramaico Nabateo fu il linguaggio usato nel regno arabo di Petra (c. 200 a.C.-106), che si estendeva sulla riva destra del Giordano, sulla penisola del Sinai e sull'Arabia settentrionale. Forse a causa dell'importanza della rotta commerciale, nel regno l'Arabo settentrionale antico fu sostituito dall'Aramaico, in una forma basata su quello Achemenide ma influenzata dall'Arabo: la "l" è spesso cambiata in "n" e sono presenti alcune parole derivate da questa lingua. Questa lingua fu usata in alcune iscrizioni fin dai primi giorni del regno, ma la maggior parte risalgono ai primi quattro secoli d.C. Viene usato uno stile corsivo, precursore del futuro alfabeto arabo. Il numero di parole derivanti dall'Arabo aumentò finché il Nabateo non sembrò confluire completamente in esso nel IV secolo.
Il Palmireno è il dialetto usato nella città del deserto siriano di Palmira dal 44 al 274. Esso veniva scritto in uno stile arrotondato, che avrebbe dato origine al corsivo Estrangela. Come il Nabateo fu influenzato dall'Arabo, ma in misura minore.
L'Aramaico Arsacide era la lingua ufficiale dell'Impero dei Parti (247 a.C.-224 d.C.). Questa forma derivava dalla tradizione di Dario nel modo più diretto tra tutti i dialetti post-Achemenidi. Ma in seguito fu influenzato dall'Aramaico parlato contemporaneo, dal Georgiano e dal Persiano. Dopo la conquista dei Parti da parte dei Sassanidi, l'Arsacide esercitò una forte influenza sulla nuova lingua ufficiale.

Tardo Aramaico Orientale Antico. I dialetti trattati nel paragrafo precedente discendevano tutti dall'Aramaico Imperiale Achemenide, ma i vari dialetti regionali di Tardo Aramaico Antico continuarono ad esistere parallelamente a questi, spesso come semplici lingue volgari. Le prime prove dell'esistenza di questi dialetti parlati ci giungono solo attraverso la loro influenza sui nomi geografici usati all'interno di dialetti ufficiali, ma questi divennero lingue scritte attorno al II secolo a.C. Questi dialetti testimoniano la presenza di un Aramaico indipendente da quello imperiale, creando una netta divisione tra oriente (Babilonia e la Mesopotamia) e occidente (la Palestina).
Ad oriente il dialetto di Palmira e l'Aramaico Arsacide si unirono alle lingue regionali, creando degli ibridi. Molto più tardi l'Arsacide sarebbe diventato la lingua liturgica dei Mandei, il Mandaico.
Nel Regno di Osroene, fondato nel 132 a.C., la cui capitale era Edessa, il dialetto regionale divenne la lingua ufficiale: il Siriaco Antico. Sull'alto corso del Tigri L'Aramaico della Mesopotamia orientale fiorì, come è provato da Hatra, Assur e dal Tur Abdin. Taziano, autore del Canto dell'Armonia, il Diatessaron, proveniva dall'Assiria, e forse scrisse la propria opera (172) in Mesopotamico Orientale più probabilmente che in Siriaco o Greco. A Babilonia il dialetto era usato dalla comunità ebraica, il Babilonese Ebraico Antico (a partire dal 70). Questo linguaggio quotidiano risentì sempre più dell'influenza dell'Aramaico Biblico e del Babilonese dei Targum.
Tardo Aramaico Occidentale Antico Le varietà regionali occidentali di Aramaico ebbero un destino analogo a quelle orientali. Esse si differenziano marcatamente dall'Aramaico Imperiale e da quello regionale orientale. Le lingue semitiche della Palestina caddero in disuso a favore di questo nel IV secolo a.C.; il Fenicio sopravvisse comunque fino al I secolo a.C.
Il dialetto parlato dalla comunità ebraica della Palestina è quello documentato in maniera migliore, e viene chiamato Palestinese Antico Ebraico. La sua forma più antica è il Giordano Orientale Antico, che si sviluppò probabilmente nella Cesarea di Filippo. Questa è la forma utilizzata nei manoscritti più antichi di Enoch (circa 170 a.C.). Il successivo stadio del linguaggio è chiamato Giudaico Antico (II secolo). Il Giudaico Antico può essere trovato in numerose iscrizioni, lettere personali, citazioni all'interno del Talmud e prese dai Qumran. La prima edizione delle Guerre Giudaiche di Giuseppe Flavio fu scritta in questa lingua.
Il Giordano Orientale Antico continuò ad essere usato fino al I secolo dalle comunità pagane che vivevano ad est del Giordano. Questo dialetto viene perciò chiamato anche Palestinese Pagano Antico, e veniva scritto in uno stile corsivo simile al Siriaco Antico. Un Palestinese Cristiano Antico potrebbe essere derivato da quello, e questo dialetto potrebbe essere la causa delle tendenze occidentali trovate nelle opere in Siriaco Antico, altrimenti del tutto orientali (es. Peshitta).
I dialetti parlati nell'epoca di Gesù. All'epoca di Gesù venivano parlati sette diversi dialetti occidentali di Aramaico, probabilmente distinti ma reciprocamente intelligibili. Il Giudaico Antico era il dialetto principale di Gerusalemme e della Giudea. Nella regione di Engedi si parlava il Giudaico sud-orientale; in Samaria il singolare Aramaico Samaritano, in cui he, heth e 'ayin venivano tutte pronunciate come aleph. L'Aramaico di Galilea, proprio della regione di Gesù, è conosciuto solo attraverso i nomi di alcuni luoghi, le influenze sull'Aramaico dei Targum, alcuna della letteratura rabbinica e poche lettere private. Sembra avere alcune caratteristiche particolari: i dittonghi non sono mai semplificati in monottonghi. Ad est del Giordano erano parlati i vari dialetti del Giordano Orientale. Nella regione di Damasco e dell'Antilibano l'Aramaico di Damasco (derivato soprattutto dall'Aramaico Occidentale Moderno). Infine, nella regione settentrionale di Aleppo, si parlava l'Aramaico dell'Oronte. Oltre a questi dialetti di Aramaico, nei centri urbani era diffuso l'uso del Greco. Ci arrivano poche testimonianze dell'uso dell'ebraico in questo periodo; alcune parole rimasero a far parte del vocabolario dell'Aramaico ebraico (soprattutto termini tecnici religiosi, ma anche alcune parole quotidiane, come 'ēṣ, "albero"), e la lingua scritta del Tanach veniva letta e compresa dai ceti colti. Tuttavia l'Ebraico uscì dall'uso comune. Anche le parole non tradotte all'interno del Nuovo Testamento scritto in Greco erano in Aramaico, piuttosto che in Ebraico. Da quello che si può capire, questo non era Aramaico della Galilea ma Giudaico Antico: questo suggerisce che le sue parole furono tramandate col dialetto di Gerusalemme invece che col suo.
Il film del 2004 intitolato La Passione di Cristo è degno di nota per il largo uso di dialoghi in Aramaico, ricostruiti da un unico studioso, William Fulco. I locutori di Aramaico Moderno hanno comunque trovato questa forma poco familiare. 
  • Medio Aramaico Il III secolo viene considerato il limite tra Antico e Medio Aramaico. Nel corso di quel secolo la natura della lingua e dei vari dialetti comincia a cambiare. I derivati dell'Aramaico Imperiale cadono in disuso e i dialetti regionali danno vita a nuove fiorenti letterature. A differenza di molti dei dialetti dell'Aramaico Antico, abbiamo molte informazioni sul vocabolario e la grammatica del Medio Aramaico. Medio Aramaico Orientale. Solo due dei dialetti dell'Aramaico Orientale Antico continuarono ad essere usati in questo periodo. Nel nord il Siriaco Antico si trasformò in Medio Siriaco; a sud il Babilonese Ebraico Antico divenne il Babilonese Ebraico Medio. Il dialetto post-Achemenide Arsacide diede origine alla nuova lingua mandaica. Medio Siriaco. Il Medio Siriaco è ad oggi la lingua classica, letteraria e liturgica dei Cristiani Siriaci. Ebbe il suo apice tra il IV e il VI secolo, con la traduzione della Bibbia (Peshitta) e con la poesia e la prosa di Efrem il Siro. Questa lingua, a differenza di quella da cui deriva, fu usata soprattutto in ambiente cristiano, anche se nel tempo divenne la lingua di chi si opponeva alla guida bizantina della Chiesa orientale, e fu diffusa dai missionari in Persia, India e Cina. Aramaico Ebraico Medio Babilonese. Questo è il dialetto del Talmud di Babilonia, che fu completato nel VII secolo. Nonostante sia la lingua principale del testo sacro, molte opere in Ebraico (ricostruito) e nei primi dialetti di Aramaico sono accuratamente disposte. Questo dialetto è anche quello che ha dato origine al sistema di scrittura delle vocali (con segni all'interno di un testo altrimenti interamente consonantico) della Bibbia ebraica e del Targum. Mandaico. Il Mandaico è essenzialmente il Babilonese Medio scritto in un altro sistema. La prima letteratura mandaica è in Aramaico Arsacide. Gli scritti cominciano ad essere stesi sempre più in Babilonese Medio o Mandaico, più colloquiali, a partire dal 224. Medio Aramaico occidentale. I dialetti dell'Aramaico occidentale antico continuarono col Palestinese Ebraico Medio (in ebraico "scrittura quadrata"), l'Aramaico Samaritano (nella scrittura ebraica antica), e il Palestinese Cristiano (nella scrittura siriaca corsiva). Di queste tre solo il Palestinese Ebraico Medio continuò ad esistere come una lingua scritta. Medio Aramaico Ebraico Palestinese. Nel 135, dopo la rivolta di Bar-Kokhba, molti sovrani ebrei, espulsi da Gerusalemme, si spostarono in Galilea. Il dialetto di questa regione passò quindi dall'oblio ad una diffusione come standard per tutti gli Ebrei occidentali; non era parlato solo nella regione, ma anche nei dintorni. Fu adottato per il Talmud di Gerusalemme (completato nel V secolo) e per i midrash (commentari della Bibbia e insegnamenti). Il sistema moderno di scrittura delle vocali per la Bibbia ebraica, il sistema Tiberiense (X secolo) era molto probabilmente basato sulla pronuncia tipica di questa variante della lingua aramaica. Le iscrizioni sulla sinagoga di Dura Europos sono o in Giordano Medio Orientale o in Giudaico Medio. Il Giudaico Medio, discendente diretto del Giudaico Antico, non è più il dialetto principale, ed era usato solo nella Giudea meridionale (l'Engedi continuò ad essere usato anche durante questo periodo). Similmente, il Giordano Medio Orientale derivò come un dialetto minore dal Giordano Antico Orientale. Aramaico Samaritano. Il dialetto Aramaico della comunità samaritana ha le sue prime testimonianze ad una tradizione documentaria che risale al IV secolo. La sua pronuncia moderna si basa sul sistema usato nel X secolo. Aramaico Cristiano Palestinese. L'esistenza di un dialetto dei Cristiani di lingua Aramaica Occidentale può essere provata a partire dal VI secolo, ma probabilmente esisteva già due secoli prima. Esso deriva dal Palestinese Antico Cristiano, ma il sistema di scrittura fu basato sul Medio Siriaco, e fu pesantemente influenzato dal Greco. Il nome Gesù, mentre è scritto Yešû' in Aramaico, si scrive Yesûs in Palestinese Cristiano. 
  • Aramaico moderno. Attualmente, circa 400.000 persone parlano l'aramaico. Si tratta di cristiani, ebrei, musulmani, mandei e drusi che vivono in aree remote ma che preservano sempre di più la loro tradizione linguistica con i moderni mezzi di comunicazione. Oggigiorno, le lingue aramaiche moderne hanno raggiunto uno stadio di diversificazione (con relative difficoltà nella mutua comprensione) mai raggiunto nel passato. Gli ultimi due secoli sono stati piuttosto infausti per l'aramaico. La crescente instabilità del Medioriente ha portato molti parlanti a spargersi in varie aree del mondo. In particolare, il 1915, (anno noto come Shaypā o "La spada") ha una fama negativa in tal senso per i cristiani parlanti l'aramaico: molti di essi, infatti, furono barbaramente trucidati durante le persecuzioni che sconvolsero le zone orientali dell'attuale Turchia negli ultimi anni di esistenza dell'Impero Ottomano. L'Aramaico possiede in genere quattro sibilanti (quello antico potrebbe averne avute sei): • una 's' sorda (come nell'italiano "sera"), • una 'z' (come quella italiana), • una /ʃ/ (col suono di 'sc' in italiano, come in "scendere"), • /sˁ/ (la "Sadhe" enfatica citata in precedenza). Infine, l'Aramaico possiede le consonanti nasali 'n' ed 'm', le approssimanti 'r', 'l', 'y' e 'w'. Cambiamenti storici di suono.  Sei principali tipologie di cambiamenti di suono possono essere usate per differenziare i vari dialetti tra loro: 1. cambio di vocale: questo fenomeno è troppo diffuso e ricorrente per essere documentato pienamente, ma è un aspetto importante per catalogare i dialetti; 2. riduzione delle coppie esplosiva/fricativa: originalmente l'Aramaico, come l'Ebraico di Tiberiade aveva le fricative come allofono condizionato per ogni esplosiva. Col cambio di vocale, la distinzione divenne in effetti relativa al fonema; ancora in seguito venne spesso persa in certi dialetti. Per esempio il Turoyo ha perso l'uso della /p/, sostituita dalla /f/. Altri dialetti, come il neo-aramaico assiro, hanno perso la /θ/ e la /ð/, sostituendole con /t/ e /d/. Nella maggior parte del Siriaco Moderno, la /f/ e la /v/ diventano /w/ dopo una vocale; 3. perdita delle enfatiche: alcuni dialetti hanno rimpiazzato le consonanti enfatiche con le corrispondenti non enfatiche, mentre quelli parlati nelle zone del Caucaso le hanno spesso glottalizzate più che faringealizzate; 4. assimilazione gutturale: questa è la caratteristica principale della pronuncia samaritana, che si può riscontrare anche nell'Ebraico Samaritano: tutte le gutturali sono ridotte a semplici interruzioni. Alcuni dialetti aramaici moderni non pronunciano la 'h' in nessuna parola (il pronome personale di terza persona maschile hu diventa ow); 5. i suoni Proto-Semitici */θ/ e */ð/ diventano in Aramaico */t/ e */d/, mentre diventano sibilanti in Ebraico (il numero "tre" è in ebraico "shalosh", ma è "tlath" in Aramaico). Cambi tra dentali e sibilanti avvengono ancora oggi nelle lingue aramaiche moderne; 6. nuovo insieme di suoni: le lingue aramaiche hanno assimilato suoni dalle lingue vicine dominanti. Generalmente si hanno /ʒ/ (come la prima consonante nell'inglese azure), /ʤ/ (come in "già") e /ʧ/ (come nell'inglese church). L'alfabeto siriaco è stato adattato per rappresentare questi nuovi suoni.
Grammatica
Come per tutte le altre lingue semitiche, la morfologia è basata su una radice costituita da uno scheletro consonantico (nella maggioranza dei casi di tre fonemi), dalla quale si ottengono, con l'aggiunta di suffissi e prefissi, la variazione del tono e della quantità delle vocali e l'allungamento delle consonanti, si ottengono le varie forme. Ogni radice ha un significato proprio (ad esempio, k-t-b significa "scrivere"), e le altre forme hanno significati derivati da questo:

Kthâvâ, manoscritto, iscrizione, testo, libro;
Kthâvê, le Scritture;
Kâthûvâ, segretario, scriba;  
Kthâveth, io ho scritto;
Ekhtûv, io scriverò.

L'Aramaico possiede due generi grammaticali: maschile e femminile. I sostantivi possono essere singolari o plurali, ma esiste un numero "duale" per i sostantivi che generalmente vengono usati per coppie. Il duale è gradualmente scomparso e attualmente è poco presente nell'Aramaico moderno. Lo "stato" dei sostantivi e degli aggettivi aramaici svolge la funzione assolta in altre lingue dal "caso". Lo stato "assoluto" è la forma basilare di un sostantivo (per esempio kthâvâ, "manoscritto"); lo stato "costrutto" è una forma troncata usata per creare relazioni possessive (kthâvath malkthâ, "il manoscritto della regina"); lo stato "enfatico" o "determinato" è una forma estesa del nome che funge quasi come un articolo determinativo, del quale l'Aramaico è privo (kthâvtâ, "il manoscritto"). Col tempo lo stato costrutto è stato sostituito da costruzioni possessive, è lo stato enfatico è diventato lo standard, e attualmente l'unico stato in uso, nella maggior parte dei dialetti. Le costruzioni possessive possibili per "il manoscritto della regina" sono: Kthâvath malkthâ — La costruzione più antica: l'oggetto posseduto è nello stato costrutto. Kthâvtâ d(î)-malkthâ — Entrambe le parole sono nello stato enfatico e la particella d(î)- è usata per indicare la relazione. Kthâvtâh d(î)-malkthâ — Entrambe le parole sono nello stato enfatico e la particella d(î)- è usata, ma si dà al posseduto una terminazione pronominale prolettica (letteralmente, "il suo scritto, quello (della) regina"). L'ultima costruzione è quella attualmente di gran lunga più diffusa, mentre era assente nell'Aramaico bibico. Il verbo aramaico ha tre "coniugazioni": alterazioni della radice verbale che indicano la forma passiva (ethkthev, "fu scritto"), intensiva (kattev, "egli decretò (nello scrivere)"), estensiva (akhtev, "egli creò"), o una combinazione di queste. L'Aramaico possiede anche due tempi verbali: il perfetto e l'imperfetto. Nell'Aramaico Imperiale si cominciò ad usare il participio come presente storico. Forse per l'influenza di altre lingue, il Medio Aramaico sviluppò un sistema di tempi composti (combinazioni di forme verbali con pronomi o un verbo ausiliare), permettendo una migliore espressività. 
La sintassi dell'Aramaico segue generalmente la struttura VSO (verbo-soggetto-oggetto). 
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domenica 11 novembre 2012

Glossario dei termini di sociolinguistica

Code switching: passaggio da una lingua ad un’altra.
Interlingua: “apparato che riflette le competenze linguistiche di una persona in un momento dato dell’apprendimento e che si caratterizza per la presenza o assenza di regole che riflettono la somiglianza con la L1” [Compagno M., Di Gesù F.,2005: Le strategie d’intercomprensione spagnolo/italiano nell’analisi contrastiva delle canzoni, AISPI Actas XXIII: Centro Virtual Cervantes].
Lingua artificiale: idioma creato a tavolino, frutto di ingegno consapevole attribuibile ad una sola persona o ad un gruppo di lavoro che ne sviluppa deliberatamente la fonologia, la grammatica e il vocabolario (nel caso delle lingue ausiliarie capita però che il vocabolario venga fatto derivare da quello delle più diffuse lingue naturali). La principale differenza rispetto alle lingue naturali risiede dunque nel fatto che originariamente quelle artificiali non si sono sviluppate ed affermate spontaneamente nelle culture umane.
Parola macedonia: L'espressione "parola macedonia" (coniata dal linguista e lessicografo Bruno Migliorini) o composto aplologico (portmanteau word o blend in inglese, mot-valise in francese) indica una parola formata dalla fusione (o sincrasi o aplologia) di due parole diverse che, il più delle volte, devono avere almeno un segmento (fonema o lettera) in comune. Si può considerare una sottocategoria o estensione dell'acronimo. Ad esempio il termine smog è nato, in lingua inglese come contrazione di smoke (fumo) e fog (nebbia). Una notevole influenza nella diffusione di queste parole composte viene da analoghe parole straniere, soprattutto angloamericane, come il termine coniato nel periodo della crisi economica degli anni settanta stagflazione, da stag(nazione), stasi dell'attività economica e (in)flazione. Come esempi italiani di parole macedonia entrate nell'uso comune si possono citare cartolibreria, furgonoleggio, cantautore, musicassetta o videofonino. Uno dei linguaggi che usa maggiormente questo tipo di parole è il linguaggio della pubblicità Si pensi a parole come ultimoda, digestimola Intellighiotti o Derbycocca dove le parole s'inseriscono una nell'altra a formare un incastro e, con la loro stravaganza, suscitano la curiosità del pubblico e quindi interesse per un nuovo prodotto.
Pidgin: lingue fortemente semplificate nella struttura e nel vocabolario che derivano dalla mescolanza di lingue di popolazioni differenti venute a contatto a seguito di migrazioni, colonizzazioni, relazioni commerciali.
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Spanglish/Espanglis

Dare un’esatta definizione del termine Spanglish non è certo semplice; tuttavia un termine “soddisfacente” può essere interlingua nella considerazione del fatto che nella sua costruzione attinge a due lingue ben identificabili: l’inglese parlato negli Stati Uniti e lo spagnolo parlato nei paesi latino-americani. Talvolta lo Spanglish viene definito pidgin ma anche la ‘jerga loca’, come lo ha definito Ilan Stavans, il più famoso studioso di questo mestizaje. Lo Spanglish, considerate le modalità costruttive e le ambientazioni sociali in cui nasce e si sviluppa trova una sua collocazione assimilabile al concetto di interlingua.

La storia della lingua spagnola
La storia della lingua spagnola delle Americhe ha origine sin dalla scoperta dell’America nel 1492 da parte di Cristoforo Colombo, se non addirittura prima, dal momento che le lingue aborigene si mescolarono attraverso la guerra e le dominazioni all’interno del continente. In questi territori vivevano molte tribù Indio che parlavano lingue diverse: Mayan, Huichol e Tarascan in Messico; Araucanian, Guaranì e Quechua nel Sud America. Questi popoli furono sottoposti alla colonizzazione da parte della Spagna e quest’ultima, nel frattempo era a sua coinvolta in un’altra grande impresa: La Reconquista, che avrebbe spazzato via altre minoranze etniche, linguistiche e religiose, come gli Ebrei e i Musulmani, rendendo così il regno spagnolo interamente Cattolico e proclamando lo Spagnolo Castigliano lingua ufficiale del regno. Seguì quello che fu nominato il Secolo D’Oro Spagnolo (El siglo de oro), consistente in un rifiorire delle arti e della letteratura. Non diversamente successe in Messico: con la colonizzazione ci si rese conto che le tribù Indio erano veramente molte e ciò avrebbe portato alla diffusione della lingua Nahuatl, che ai tempi era la lingua franca del Messico. Inoltre i coloni spagnoli erano di gran lunga inferiori al numero delle tribù Indio. Benchè molti indio successivamente morirono a causa di malnutrizione ed epidemie, molti termini derivanti dalla lingua Nahuatl sono ancora oggi presenti nella lingua spagnola, ma vengono chiamati “americanismos”, esempi sono “molcajete” da “mulcazitl”, “aguacate” da “ahuacatl”, “huipil” da “huipilli”, mentre il termine “canoa” è rimasto in lingua Nahuatl. Inoltre alcuni autori Spagnoli si resero conto che erano già esistenti testi in Nahuatl e Guaranì. Si può dunque dire che lo Spagnolo del centro-sud America è nato dallo spagnolo dei colonizzatori più influenze delle parlate locali, come la lingua Nahuatl; per riportare le parole di Stavans: “But, significantly, no middle ground emerged in Mesoamérica, no premodern Spanglish – not a mestizo Spanish but an in-between Spanish and indigenous tongues like Nahuatl.” Cominciano ad essere pubblicati vari dizionari riguardo “el mestizo” tra la lingua spagnola e le lingue delle civiltà precolombiane sin dalla fine del ‘400, che mettono in risalto le origini di alcuni termini della lingua spagnola che derivano da altre lingue come la lingua Nahuatl, l’arabo, il francese, l’ebraico, il greco e il latino. Ma sarà solo con la nascita della Real Academia Española de la lengua Castellana (come l'accademia della Crusca in Italia e la Académie française) nel 1713 che si incomincerà a dare una svolta sistematica negli studi sull’idioma: lo scopo infatti, sarà quello di istituzionalizzare uno dei dialetti della penisola spagnola e di salvaguardarlo per mantenerlo nella sua pura forma. Difatti, tutti i vocaboli di origine “esotica” (araba, ebraica…) non vennero introdotti nei loro studi e vennero considerati rudi e offensivi. Da qui nacque un vero e proprio vocabolario dell’Accademia che si diffuse oltreoceano, intorno alla fine del XIX secolo, in America Latina. La svolta finale invece, sarà con la dittatura di Francisco Franco in Spagna e soprattutto con l’avvento della democrazia nel 1974: in questo perido infatti, verranno riconosciuti a livello nazionale, come e vere proprie lingue della penisola iberica il Galiziano, il Catalano e il Basco. Tuttavia, fino a qualche anno fa, sono stati pubblicati dizionari di lingua spagnola che racchiudevano la terminologia hispano-americana, un esempio è il Diccionario de hispanoamericanismos no recogidos por la Real Academia di Renaud Richard, ma non mancano anche dizionari di mexicanismos, peruanismos, colombianismos, argentinismos e altri ancora, pubblicati sia in Spagna che nelle Americhe, frutto degli studi della Academia Norteamericana.

La storia della lingua inglese L’avvento dei barbari Sassoni e Juti nel 450 d. C in Bretagna, nonché i loro contatti con i Celti e i Normanni diede luogo ad un idioma, l’inglese, il processo avvenne lentamente. Con i Canterbury Tales di Chaucer, l’idioma seguì un percorso sintattico normalizzato, ma alcune caratteristiche grammaticali non furono modificate. Solo dai primi del ‘600 si incomincia a parlare di vocabolario: il primo approccio sistematico fu il Cawdrey’s Table Alphabeticall. Nella seconda metà del ‘700, uno studioso, Doctor Johnson rendendosi conto che la lingua è in costante mutamento, stilò il Dictionary of The English Language, il cui scopo era di mostrare le varianti della lingua inglese, raccogliendo gran parte dei vocaboli e modi di dire dalle zone di origine anglo-sassone come gli Stati Uniti, Australia...e raccogliendo anche termini di origine latina, greca, francese, evidenziandone l’origine linguistica e la storia del termine, consentendo così di trovare una spiegazione alla nascita dei neologismi presenti nella lingua inglese. Anche negli studi sulla lingua inglese non mancavano pareri opposti: il linguista Matthew Arnold ad esempio scrisse un saggio “The Literary Influence of Academies”, dove invitava il Cardinale Richelieu a salvaguardare la purezza della lingua francese; Arnold sperava infatti che gli studiosi inglesi proseguissero sulla stessa linea d’onda. In opposizione al dizionrio di Johnson, nacque l’Oxford Language Dictionary, come emblema dell’individualismo. Come il Diccionario della Real Academia, anche l’Oxford mette in risalto i termini e modi di dire inglesi considerati rudi e volgari solo perché derivano da altre lingue. Tuttavia, col passare del tempo, intorno al XIX secolo, ci si rese conto che i gallicismiinfluivano sugli autori inglesi come Milton e Dryden, e fu interessante notare come ognuno di loro utilizzava modi diversi per indicare le stesse parole: difatti, gli studiosi hanno notato le differenze che intercorrono fra l’inglese parlato ad esempio in Australia e quello di altre zone, come l’India, la Nuova Zelanda…e ciò ha permesso la compilazione e la pubblicazione in tutti i paesi anglosassoni, ancor’oggi, di numerosi dizionari delle varianti della lingua inglese.

L’incontro fra le due lingue e nascita dello Spanglish.
L’incontro nel 1492 fra la civiltà anglosassone e la civiltà hispanica produsse soltanto una verbal miscegenation. Cambiamenti drastici arriveranno soltanto verso i primi anni dell’800, quando Napoleone venderà la Lousiana agli Stati Uniti e con l’arrivo degli Anglo-americani in Texas, Arizona, New Mexico e California. Verso il 1822 si diffonde il commercio con il Messico, e il Texas diventa interamente americano, quadruplicando la popolazione nell’arco di un decennio. Nel 1848, con la firma del trattato di Guadalupe-Hidalgo da parte del dittatore messicano Antonio Lopez De Santa Anna, circa i due terzi del territorio messicano passarono agli Stati Uniti, e le popolazioni dei territori come l’Arizona, Califronia e New Mexico cambiarono cittadinanza da un giorno all’altro. L’articolo VIII del suddetto trattato stabilisce infatti le prerogative di questo cambiamento. Ne riporto la versione inglese:

“Mexicans now established in territories previously belonging to Mexico and which remain for the future within the limit of the United States, as defined by the present treaty, shall be free to continue where they now reside, or to move at any time to the Mexican Republic, retaining the property which they possess in the said territories, or disposing thereof, and removing the proceeds wherever they please; without their being subjected, on this account, to any contribution, tax or charge whatsoever. Those who shall prefer to remain in the said territories, may either retain the title and rights of Mexican citizens, or acquire those of citizens of United States. But they shall be under the obligation to make their election within one year from the date of the exchange of ratifications of this treaty: and those who shall remain in the said territories, after the expiration of that year, without having declared their intention to retain the character of Mexicans, shall be considered to have elected to become citizens of the United States. In the said territories, property of every kind, now belonging to Mexicans, not established there, shall be inviolably respected. The present owners, the heirs of these, and all Mexicans who may hereafter acquire said property by contract shall enjoy with respect to it, guaranties equally ample as if the same belonged to citizens of the United States.”
[Traduzione: “I messicani ora insediati nei territori appartenenti precedentemente al Messico e i quali in futuro rientreranno nei confini degli Stati Uniti, come stabilito dal presente trattato, saranno liberi di continuare a vivere dove ora risiedono o di spostarsi in qualsiasi momento nella Repubblica Messicana, mantenendo le proprietà che possiedono nei suddetti territori, oppure disponendone e trasferendo il ricavo dovunque sia da essi gradito; senza essere soggetti, per questa ragione, a nessun tipo di contributo, tassa o onere di qualsiasi genere. Coloro che preferiranno restare nei suddetti territori, possono mantenere i diritti dei cittadini messicani, o acquisire quelli dei cittadini statunitensi. Tuttavia, avranno l’obbligo di scegliere entro un anno dalla data di ratifica del trattato: coloro che resteranno nei suddetti territori, dopo la scadenza del termine preposto, senza aver dichiarato la loro volontà di mantenere la cittadinanza messicana, saranno considerati cittadini degli Stati Uniti. Nei suddetti territori, le proprietà di qualsiasi genere, appartenenti ai Messicani che non vivono lì, saranno rispettate in maniera inviolabile. Gli attuali proprietari, gli eredi di quest’ultimi e tutti i messicani che in avvenire potranno acquistare con contratto le suddette proprietà ne godranno con rispetto e con le stesse ampie garanzie di cui godono i cittadini degli Stati Uniti.”]

L’Inglese divenne così la lingua dominante, della diplomazia e dell’economia, ma l’utilizzo dello spagnolo nelle scuole e nelle famiglie non svanì affatto, ne sono testimonianza vari quotidiani statunitensi, come “El Nuevo Mundo” di San Francisco. A poco a poco, Key West e New York divennero poli d’immigrazione per le comunità portoricane e cubane. Col passare del tempo, sin dai primi del ‘900, il codice linguistico cambiò: molti termini spagnoli vennero adottati nella lingua inglese e viceversa, molti termini inglesi adoperati dagli hispanici. Furono anche pubblicati dizionari di anglicismi nel mondo hispanico, dal centro e sud America fino in Spagna.

Diffusione dello Spanglish
Lo Spanglish è diffuso maggiormente nei territori del sud-occidentali degli Stati Uniti, in quanto questi territori oltre ad essere confinanti con il Messico, un tempo sono stati di dominati dagli spagnoli. Anche in Florida è diffuso lo Spanglish, nonostante si trovi nel versante orientale, perché metà di molti cubani. Il fenomeno comunque è sempre in espansione grazie alle continue immigrazioni di popolazioni hispaniche - che attualmente rappresenta il 15% circa della popolazione totale del paese - soprattutto in Texas e in California e si prevede che possano di gran lunga superare il numero dei neri americani (Di Gesù e Compagno, 2007). Ecco una panoramica dei principali territori dove lo Spanglish è maggiormente diffuso:
California, USA. Con circa 36.000000 di abitanti, di cui circa 4.000000 a Los Angeles altra melting pot americana dopo New York (vedi.), la California è lo stato americano dove è più diffuso lo Spanglish, infatti circa il 28% della popolazione è di origine hispanica, con padronanza di entrambe le lingue, inglese e spagnolo più lo Spanglish. Essendo confinante con il Messico (nello specifico con la regione della Bassa California), è da lì che proviene la maggior parte della popolazione di lingua spagnola. La lingua ufficiale dello stato resta l’inglese, e lo spagnolo, seppur insegnato solo come materia scolastica, rappresenta la seconda lingua più diffusa.
New Mexico, USA. Definito lo stato “spagnolo” degli Stati Uniti, il New Mexico o Nuevo México deve l’aggettivo al fatto che è l’unico stato americano dove la lingua ufficiale, nonché la più diffusa, è lo spagnolo. Il New Mexico un tempo è stato anche territorio indiano, infatti alcuni nativi americani hanno subito la colonizzazione da parte degli spagnoli che portò il territorio ad essere annesso al Messico. Solo nel 1912 lo stato entrò a far parte degli Stati Uniti, dopo essere stato anche territorio texano.
Texas, USA. Anch’esso territorio indiano e tutt’oggi emblema del Far West, il Texas è stata una delle prime colonie spagnole, divenuta successivamente parte del Messico, seppur soggetto anche alla pressione francese proveniente dalla Lousiana. Entrò a far parte nella confederazione statunitense nel 1861, e qualche anno più tardi fu soggetto alla segregazione razziale. Un tempo la lingua ufficiale era lo spagnolo, ma successivamente divenne l’inglese. Lo Spagnolo tutt’oggi rappresenta la seconda lingua più diffusa.
Arizona, USA. Confinante con il Messico e altri stati americani con diffusione di lingua spagnola, fu esplorato dagli spagnoli che l’aggregarono al viceregno della Nuova Spagna, mentre i coloni inglesi arrivarono tardi. Un tempo questo stato era un unico territorio insieme al New Mexico, quando la tribù degli Apache vinse la guerra contro il Messico, divenendo territorio autonomo degli Indiani. La lingua ufficiale è comunque l’inglese, ma la seconda lingua più diffusa è lo spagnolo.
Florida, USA. Situata nel versante orientale degli Stati Uniti, la Florida prende il nome dall’aggettivo spagnolo che sta per fiorita, in quanto il territorio venne scoperto durante il periodo di Pasqua, ovvero Pascua florida. La dominiazione spagnola risale ai primi del ‘500, ma successivamente si formarono anche colonie francesi e inglesi. Nel 1821 passo ufficialmente sotto il domino inglese come 27° stato degli Stati Uniti. La diffusione della lingua spagnola e dello Spanglish è dovuta, oltre all’influenza spagnola dei secoli passati, anche al continuo flusso migratorio degli hispanici provenienti dai Caraibi, in particolare dei profughi Cubani, data la vicinanza di Cuba con lo stato (circa 90 miglia di distanza). Difatti, in Florida, soprattutto a Miami, è appunto parlata una variante particolare di Spanglish, il Cubonics.
New York, USA. La città omonima, New York, è oggi la città più popolosa degli States. Considerata melting pot, in quanto ospita tantissimi immigrati di etnie varie (circa il 36 % della popolazione è nato all’estero), ospita la più vasta comunità afro-americana degli Stati Uniti (circa il 31%) e le lingue parlate sono circa 170. La presenza della lingua spagnola e dello Spanglish a New York si sviluppa per lo più nei sobborghi, in particolare nel Bronx, distretto “difficile” e abitato per la stragrande maggiornanza da immigrati latino-americani e da afro-americani. E’ all’interno di questi quartieri che si respira appieno un’atmosfera esotica, e dove sono per lo più i giovani hispanici (tendenzialmente dominicani, seguiti poi da giamaicani, messicani, colombiani…) a conversare in Spanglish, mentre il Nuyoricano rappresenta lo Spanglish parlato dai dominicani.
Messico. Unico territorio di origine spagnola confinante con gli Stati Uniti, il Messico un tempo era abitato da civilità come Maya, Aztechi e Incas; che parlavano lingue differenti e che hanno lasciato una significativa traccia nel territorio, a partire dall toponomostica. Solo con la venuta dei conquistadores e di Herman Cortés la lingua spagnola si diffonderà rapidamente, conservando comunque notevoli influenze e termini propri delle lingue dei popoli precedenti. Col tempo il Messico fu protagonista di diverse battaglie per la conquista di alcuni territori confinanti, che per un certo periodo furono sotto la sua giurisdizione. Ma successivamente alcuni di questi territori passarono agli Stati Uniti e quindi sotto influenza inglese. La lingua spagnola è tutt’oggi la lingua più diffusa insieme a diversi idiomi indigeni ed è la lingua nazionale, ma nelle zone di confine con gli Stati Uniti, nelle località balneari e nelle città più grandi viene parlato e insegnato nelle scuole prestigiose private anche l’inglese. Lo Spanglish è diffuso prevalentemente fra i giovani e la varietà tipica del Messico è il Chicano.
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Nozioni di base di linguistica generale

L’uomo fin dai primordi ha avvertito la necessità di comunicare con gli altri esseri della stessa specie. L’evoluzione anatomica del cranio, dei muscoli facciali, della lingua e degli altri muscoli connessi alla sua motilità e dello stesso osso ioide al quale la lingua è ancorata, hanno consentito l’emissione dei primi suoni fonetici creando le premesse che nelle successive tappe evolutive hanno dato origine ad un sistema di comunicazione verbale. Una definizione ampiamente accettata e condivisa del termine lingua (linguaggio verbale umano) è quella che la definisce un mezzo primariamente orale di espressione e comunicazione umana, costituito da un sistema di segni che si attualizzano in messaggi o testi. In essa possiamo distinguere due dimensioni essenziali: una cognitiva che la caretterizza come “espressione simbolica del pensiero” ed una funzionale che ne mette in evidenza l’essere uno “strumento tipico di interazione comunicativa dell’uomo con i propri simili”. Vi è un certo accordo fra i linguisti nel riconoscere nella lingua la presenza di un certo numero di tratti costitutivi o proprietà tali da distinguere la lingua propriamente detta, o linguaggio verbale umano, da ogni altro sistema di comunicazione. In una lingua, nel senso più completo del termine, distinguiamo livelli di analisi diversi che possono essere studiati separatamente: la fonologia che si occupa dei suoni, la morfologia che studia le parole, i sintagmi per lo studio delle combinazioni parole, la sintassi che si occupa delle frasi e della loro concatenazione ed infine la semantica e la pragmatica, dove la prima studia il riferimento dei segni alle entità da essi designate, e la seconda le condizioni di appropriatezza del loro uso in una situazione. Dopo queste premesse introduttive relative al termine di lingua, un altro termine da definire è quello di “interlingua”; con questo termine viene definita una lingua artificiale con finalità di esprimere il contenuto di parole e frasi composte in un insieme determinato di lingue. Questo fenomeno è studiato nell’ambito della “sociolinguistica” o “sociologia del linguaggio” che indaga sulla dimensione sociale del linguaggio, come fatto culturale e nella sua variabilità poichè questa tendenza alla variabilità è in rapporto alla variabilità dei contesti sociali. Pertanto questa forma di comunicazione perde ogni dimensione formale (tipica della lingua) e diventa strumento di comunicazione fra individui in contesti più o meno particolari.
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